Il cittadino o il lavoratore comune probabilmente non sono stati gran che interessati dalle messinscene, dalle presenze, dalle discussioni dei “grandi” e degli esperti trovatisi a Davos, e protetti da un intero esercito. Sanno, tutt’al più, che come contribuenti ci hanno messo del loro. Uno studio, fattosi notizia, che ha preceduto quel Forum economico mondiale, qualche preoccupazione può aver sollevato anche nel cittadino o nel lavoratore comune. Diceva, in sostanza, che le innovazioni tecnologiche provocheranno una perdita netta (quindi già scontati i nuovi posti creati) di oltre 5 milioni di posti di lavoro nei prossimi cinque anni in quindici paesi esaminati, che rappresentano il 65 per cento della manodopera mondiale. Ne derivano due constatazioni e riflessioni: la tecnologia distrugge posti di lavoro; il tipo di evoluzione tecnologica in atto mette in forse l’avvenire stesso del lavoratore-salariato. La tecnologia che distrugge posti di lavoro non è una novità. La prima rivoluzione industriale, quella del XIX secolo, con la macchina a vapore, ha sostituito e decuplicato la forza-lavoro degli operai. Ci furono lavoratori, tessitori inglesi o lionesi (definiti poi “luddisti”, da Ned Ludd, un giovane che distrusse un telaio per protesta) che cercarono invano di opporsi all’invasione dei telai meccanici che toglievano lavoro e generavano miseria. La seconda, quella del XX secolo, ha visto nascere la meccanizzazione delle catene di lavoro, simbolizzate da Tempi moderni di Chaplin, in cui l’operaio diventa una ruota. Oggi, l’automazione generalizzata ha incontrato la digitalizzazione e gli algoritmi e si è dato un nuovo nome a quella che viene definita terza rivoluzione industriale: la roboluzione, sintesi di robot e rivoluzione. In termini semplici, troppo semplici ma sufficienti per capirci: si creano delle macchine dotate di intelligenza artificiale, degli “umanoidi”, pronti a sostituire completamente l’uomo, ad eseguire ogni genere di lavoro, a comunicare persino tra di loro, a sincronizzarsi, dalla fabbricazione di beni allo stoccaggio, dalla distribuzione alla vendita, persino all’autorganizzazione in tempo reale via Internet. Insomma, il regno delle imprese integralmente robotizzate è annunciato. Con sempre meno uomini per farlo girare. Non solo nelle fabbriche. Due studiosi di Oxford hanno elencato 702 mestieri che scompariranno a breve termine, dall’industria ai servizi. Un’inchiesta della Commissione europea rileva che il 73 per cento degli europei sono preoccupati e contrari alla roboluzione perché minaccia i posti di lavoro, ma, forse ammaestrati dalla storia, si ammette una sorta di inevitabilità. Si sostiene che, com’è avvenuto per il passato (e l’esempio classico è quello dell’autoveicolo che ha sostituito il cavallo), altre professioni e altri mestieri si creeranno e moltiplicheranno. Tuttavia quando a un uomo sostituisci un suo simile meccanico, quasi a sua immagine e somiglianza, un umanoide, la situazione è diversa. Ci si deve porre più che mai la questione della specificità umana, della sua originalità radicale. Bisognerà perlomeno chiedersi- ciò che non ci si è mai chiesto: come, in quale compito e attività, l’uomo rimane insostituibile. Qual è il “valore aggiunto” dell’uomo che l’economia ignora sempre perché non entra nel suo dogma di competitività o produttività? Non è che i robot siano ancora e solo destinati a eliminare i costi del lavoro, a liberare il capitalismo da oneri che non vuole e gli rovinano la festa dell’accumulazione (ma poi, chi acquisterà?) e non a liberare invece l’uomo dandogli più tempo per essere… più umano?
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