Il conflitto in corso da decenni in Kashmir annulla la speranza di un futuro migliore di una intera generazione.
Arrivando a Srinagar, capitale dello stato autonomo del Kashmir indiano, la prima cosa che salta agli occhi è la voglia di lavorare della gente. Non si tratta del bisogno "ordinario" cui siamo abituati in Occidente, della serie "devo lavorare se voglio una casa, una famiglia e un avvenire sicuro". Nel caso del Kashmir, è evidente come avere un'occupazione, per quanto saltuaria, equivalga ad un riscatto personale. È l'occasione per giovani e meno giovani di riappropriarsi della propria dignità, ravvivando la speranza o forse l'illusione di vivere un'esistenza normale. Paradossalmente, sebbene l'ultimo ventennio sia stato segnato da feroci scontri tra i militanti kashmiri con quelle che loro definiscono "forze di occupazione militare" indiane, costati decine di migliaia di vittime, la principale fonte di occupazione rimane il turismo. Da queste parti, all'estremità settentrionale dell'India, vicino ai delicati confini con Cina, Pakistan e più in là Afghanistan, non esistono industrie o altre attività manifatturiere in grado di fornire un impiego sicuro agli abitanti, salvo qualche laboratorio che realizza oggetti di legno cesellato, sciarpe di lana pashmina, soprammobili di cartapesta e altri prodotti artigianali, rientranti comunque nell'indotto del turismo. I viaggiatori che di questi tempi decidono di visitare il Kashmir sono pochi, per cui uno straniero sbarcato all'aeroporto è una preda da non lasciarsi sfuggire. Me ne accorgo quando supero il controllo passaporti e avvicino lo sportello dei taxi pre-pagati, dove, un ragazzone dalla pelle olivastra, gli occhi chiari e il naso aquilino mi si rizza davanti. «Sir, l'ufficio che cerca è stato spostato, ora si trova da questa parte, mi segua prego». Mi accorgo del tranello e continuo per la mia strada, ma lui mi segue, martellandomi incessantemente pur di attirare la mia attenzione. Stessa storia oltre le porte scorrevoli verso l'esterno, dove altri due ragazzoni, più alti e aquilini del primo mi invitano a seguirli, facendosi via via più insistenti, quasi aggressivi quando mi vedono avanzare verso il taxi con passo veloce, senza fornire dettagli sulla mia destinazione. La loro non è arroganza, nemmeno avidità, sono solo gestori di hotel, ristoranti, negozi o semplici nullatenenti che sperano di raggranellare qualche rupia procacciando nuovi clienti. Soltanto uno mi segue fino al taxi, continuando a propormi il suo alloggio "a prezzi d'occasione" anche quando chiudo le mie cose nel bagagliaio. Dopo l'ennesimo "no grazie" capisce di non avere più chance, così l'occhio aggressivo della competizione cambia veste, facendo emergere tristezza e rassegnazione. Il ricordo di quello sguardo mi accompagna lungo la strada, fino all'uscita dell'aeroporto, dove viene rimpiazzato dal susseguirsi incessante di torrette cinte da filo spinato, soldati in mimetica appostati ad ogni angolo, bunker con minuscoli spioncini dai quali spuntano canne di fucile, camion carichi di uomini armati, mezzi corazzati agli incroci. Poi ancora poliziotti kashmiri armati con i soliti archibugi d'ordinanza, e bardati da voluminosi giubbotti antiproiettile. Tanto basta a farmi piombare in quel mondo parallelo di cui da anni seguo le vicende, ma che non ho ancora visto: il Kashmir. In questo pittoresco stato himalayano – oggetto da 62 anni di un'accesa contesa tra India, Pakistan e movimenti di liberazione che sostengono il diritto all'indipendenza –, si trova la maggiore concentrazione militare al mondo: quasi 600 mila soldati e poliziotti indiani, molti di più di quanti se ne trovino in Afghanistan, Iraq o Palestina. La presenza dei militari non sembra impensierire più di tanto Bilal Billoo, 32enne che ho scelto a caso tra decine di altri accaniti albergatori, arrivati vicini alla rissa pur di avermi come cliente nei loro alloggi. Mi accompagna nella sua house boat di nome Howrah, una delle numerose case galleggianti ancorate in modo permanente sulle acque verdi del lago Dal, vicino alla parte vecchia di Srinagar, dove spiccano pittoreschi edifici in legno e gli slanciati minareti delle moschee. La sera, dopo cena, siedo sulla tranquilla veranda che da sull'acqua a sorseggiare del the kashmiro, a base di zafferano, cannella e cardamomo. Mi fa compagnia Imran, 25enne fratello di Bilal, e dopo due chiacchiere sull'Europa mi parla della condizione dei giovani kashmiri. «Le scuole di Srinagar funzionano bene – spiega con fare timido –, abbiamo anche l'università, con facoltà di legge, medicina, lingue e commercio. L'accesso agli studi è agevolato, quindi molti riescono ad avere un'educazione superiore alla media indiana, e praticamente tutti sanno l'inglese». A scuola i giovani imparano a vedere oltre, maturano aspettative di vita evolute, si creano una coscienza politica. Contemporaneamente, desiderano mettere in pratica le specializzazioni universitarie, aspirando a una professione che in Kashmir non esiste. Il persistere di questa situazione crea risentimento e disagio sociale, lasciando due sole alternative: andarsene dal Kashmir oppure, soprattutto di recente, combattere con i militanti islamici contro gli "hindu giunti da New Delhi". «Il 65 per cento dei giovani di qui desidera partire – continua Imran –, per l'India o per l'Europa. Sanno che restando non hanno chance per il futuro. La colpa è di chi ha il potere, perché non lo sa gestire! O comunque si limita a perpetrare il potere stesso, piuttosto che pensare strategie per il rilancio dell'economia locale. Negli anni '70 e '80 c'era il turismo di massa, e con quello ricchezza, ma ora qui si combatte e si muore, per cui i turisti sono pochissimi. È frustrante". Imran, Bilal e gli altri fratelli trascorrono i mesi invernali tra Delhi e Rotterdam, dove si occupano di commercio, mantenendo i genitori che rimangono nella casa galleggiante sul Dal Lake, ad aspet- tare una nuova stagione turistica, sperando che sia meglio di quella precedente. |