Il trionfo della macellazione

Vi è un legame strettissimo, un intreccio, una sovrapposizione d’identità, fra la macellazione meccanica, sviluppata dall’industria della carne, e i moderni sistemi di produzione di massa.
Da un lato le linee di smontaggio o più propriamente linee di squartamento (dissembly lines) del vivente animale, dall’altro le linee di montaggio delle grandi fabbriche automobilistiche. Da un lato i macelli della Armour di Chicago, dove si poteva seguire “il maiale dal porcile alla salsiccia” (M. Weber), dall’altro gli impianti della Fmc di Detroit, dove già nel 1913 un’intera vettura poteva venir assemblata in due minuti e mezzo. Sono le due facce inseparabili della produzione a flusso continuo, caratterizzante l’epoca fordista. Espressioni, una sanguinante, l’altra sempre più priva di macchie d’olio – ma non certo di morti bianche – dell’accelerazione del ciclo del vivente in nome dell’aumento della produttività.

 

È assodato che Ford per arrivare alla catena di montaggio trasse importanti elementi tecnici dalla sua conoscenza diretta dell’industria della carne. La liquidazione della produzione articolata per posti di lavoro separati e distribuiti nello spazio, la liquidazione del lavoro a favore di un cieco eseguire i cui ritmi sono dettati dalla direzione e dai capi-reparto che gestiscono la velocità dei nastri di trasmissione, è pertanto anche espressione di una cultura carnivora, e a tal punto vorace da non disdegnare affatto, in fondo, forme di antropofagia realizzate nei termini, solo in parte sublimati, di uno sfruttamento parassitario del lavoro vivo. Forse si potrebbe scrivere la storia del capitale come una storia del parassitismo a spese del corpo operaio, o, per meglio dire, come una storia del più perdurante, inaspettato e feroce cannibalismo.


Da questo punto di vista, si può anche pensare che lo specismo costituisca uno dei presupposti, ma anche un effetto, del dominio classista. Già F. W. Taylor, il celebre fondatore del moderno management scientifico del lavoro, ancor prima dell’imposizione della catena di montaggio aveva svalutato a tal punto la soggettività del lavoratore da giungere a prescrivere che uno dei requisiti per aumentare la redditività doveva essere quello  di disporre di lavoratori provvisti “delle caratteristiche di un bue”. L’automazione, la creazione delle fabbriche sempre più vuote e efficienti e sedate, fino alla robotizzazione contemporanea di molte funzioni, in sostituzione progressiva del maggior numero possibile di lavoratori e di vive soggettività, sono dunque ora le specchio, il selfie spettrale della grand-bouffe del capitale.

 

Con forte intuito, quel grande maledetto che fu L. F. Céline , annotò già nel 1925, dopo una visita delle fabbriche di Detroit: «...Si può immaginare Henri Ford dirigendo, da solo, con qualche uomo-scimpanzé, questa officina mostruosa e sempre più prolifica. Da Ford la salute dell’operaio è senza importanza, è la macchina che gli fa la carità di avere ancora bisogno di lui...». Il post-fordismo, il lavoro immateriale con le fabbriche sempre più deserte, in fondo, non fa allora che esplicitare l’antropofagia originaria del capitale, il trionfo autodistruttivo della linea globale dello squartamento della carne. Anche con vegetariani, vegani, animalisti, antispecisti, crescono e si moltiplicano, nonostante tutto, belle potenzialità anticapitalistiche nel contemporaneo.

Pubblicato il

22.09.2016 13:51
Nicola Emery