Quasi senza soluzione di continuità, si è passati dal discutere freneticamente sui pericoli, i vandalismi, i rischi ai monumenti, la presenza di terroristi di Al Qaeda e i deliri di Oriana Fallaci sul Corriere della Sera, allo spaccare il capello in quattro su quanto l’esito incredibilmente felice del Forum sociale europeo e della manifestazione per la pace di sabato 9 novembre divida i Democratici di sinistra, metta in difficoltà l’Ulivo, induca Sergio Cofferati a “mettere il cappello” (cattivo gergo di sinistra) sul movimento, ecc.
Di che cosa i 60 mila iscritti alle centinaia di conferenze, seminari, workshop abbiano in effetti parlato, di questo, nessuna traccia. La scrittrice Silvia Ballestra ha scritto, su l’Unità di martedì 12, un divertente articolo, in cui suggerisce a giornalisti, opinion maker e politici come imparare rapidamente qualcosa su quelli che loro hanno battezzato “no global”: giornali, libri, dibattiti… Un elenco impressionante, una elaborazione di idee e progetti vulcanica, una capacità di dialogo quasi senza precedenti. Il segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, uno dei pochi uomini politici ad aver fatto la fatica di decodificare lingua e intenzioni del “movimento di Porto Alegre”, ha notato l’essenziale: il Forum ha mostrato, insieme, due qualità che non dovrebbero poter convivere, la radicalità e l’essere unitario.
Ma per fare cosa? Per arrivare a quel che Riccardo Petrella, agente principale della campagna mondiale per l’acqua e tra i fondatori del Forum mondiale, chiama «una nuova narrazione del mondo». Ossia, una visione delle cose che ricostruisca un altro senso comune. Quella di Petrella è un’idea talmente affascinante, che si potrebbe, per gioco, prenderlo sul serio, ovvero, guardando ai temi e alle esperienze discussi e raccontati negli incontri fiorentini, tentare di descrivere il mondo come sarebbe, se tutte quelle idee diventassero, da sperimentazioni diffuse, come oggi sono, la norma.
Il “mondo di Firenze” sarebbe, prima di tutto, un mondo senza guerre. Non senza conflitti, beninteso, perché le differenze, le disparità, gli interessi contrapposti non sarebbero eliminati, e lo stesso movimento tiene alla sua pluralità. Ma i conflitti sarebbero regolati o governati attraverso ogni forma possibile di dialogo e di cooperazione, che si fonderebbero sul fatto che non esisterebbe un “governo mondiale” o un “parlamento globale”, né tantomeno un “presidente dell’umanità”, da eleggersi ogni quattro o cinque anni: la democrazia, riportata al livello del suolo, sarebbe assicurata dal fatto che ogni città o territorio sarebbero autogovernati da un intreccio di democrazia delegata e diretta, sul modello del “bilancio partecipativo” di Porto Alegre (e di centinaia di altre città, già ora, in tutto il mondo). Questi municipi liberi e democratici intreccerebbero relazioni tra loro su ogni problema possibile, dalla gestione di un bacino fluviale allo scambio di merci, fino a un sistema di gemellaggi tra città del nord e città del sud, in una forma di cooperazione internazionale “dal basso” (si calcola che negli ultimi anni, in Spagna, almeno metà del totale del denaro destinato alla cooperazione con i paesi poveri sia venuto dalle amministrazioni locali).
In questa cornice democratica, l’economia tornerebbe al suo grado zero: quello di insieme di tecniche produttive utili a produrre il necessario per la vita di ciascuno, e per riprodurre le condizioni della vita. Dunque, i parametri assurdi su cui ora si fondano le statistiche sul “benessere” (il Pil, ad esempio), sarebbero aboliti e sostituiti con altro (alcune proposte molto interessanti le fa il Wwf e un’importante “lettera sul post-sviluppo” è stata scritta da Serge Latouche, Wolfgang Sachs e altri).
Piuttosto, si tratterebbe di auto-produrre localmente il più possibile del necessario (è l’idea dello “sviluppo locale” di Alberto Magnaghi, ma anche la traccia della “sovranità alimentare” che segue Via Campesina), adottando forme di consumo adatte al risparmio (è il tema di Francuccio Gesualdi, autore della “Guida al consumo critico”) e ispirate alla conservazione (dell’ambiente, del paesaggio urbano e rurale). Gli stessi trasporti, alleggeriti dal peso di una circolazione delle merci nevrotica (attorno al tunnel del Monte Bianco vi è una grande campagna per questa ragione), sarebbero riorganizzati secondo un modello collettivo e a basso impatto ambientale: per esempio, oltre ai trasporti pubblici, con lo scambio di “unità di trasporto” elettriche, a disposizione di chiunque.
In questo mondo non tanto immaginario, il commercio sarebbe regolato dai principi “equi e solidali”, ossia al massimo profitto per il produttore e il minimo per il distributore, con un “ritorno” che consolidi le esperienze cooperative; e la finanza si atterrebbe ai principi etici, banche che non investano mai in traffici di armi o di rifiuti tossici, ad esempio, ma al contrario in iniziative sociali a bassa tecnologia ed alto impiego di lavoro (l’italiana Banca Etica ha raccontato, tra l’altro, l’investimento nel Parco dell’Aspromonte, in Calabria, che ha creato lavoro e turismo, salvaguardando e anzi rivivificando villaggi e natura). In generale, ogni transazione finanziaria sarebbe modestamente ma certamente tassata, a favore dei paesi più poveri (una legge di iniziativa popolare per la Tobin Tax è stata presentata al parlamento italiano, corredata da decine di migliaia di firme).
Naturalmente, viaggiare da un continente all’altro sarebbe un diritto di tutti (perché tutti sarebbe dotati di una “cittadinanza globale”, di cui quella europea potrebbe essere una anticipazione), ma le migrazioni causate dalla povertà diminuirebbero, visto che un progetto globale baderebbe a salvaguardare e redistribuire le riserve di acqua potabile, incentivando in ogni modo il risparmio; un altro diffonderebbe sistemi di coltivazione a basso costo (anche ambientale) dopo che una riforma agraria (come quella che i Sem Terra sollecitano in Brasile) avrebbe dato a tutti la possibilità di coltivare la propria terra, meglio se in cooperativa; un’altra ancora avvierebbe la riconversione radicale delle industrie più nocive in qualcosa di socialmente utile (sindacalisti della Fiom hanno riconosciuto, al Forum, che la battaglia per difendere i lavoratori Fiat non può continuare a ignorare gli effetti del prodotto di quel lavoro, l’automobile).
Perciò, si viaggerebbe per fare esperienza, per conoscersi, per confrontare culture e religioni. Per turismo, anche, che però sarebbe “responsabile”, e dunque, invece che tappe forzate per guardare monumenti incomprensibili (come capita ai giapponesi a Firenze), si tratterebbe di immergersi nelle società che si visitano, con il tempo e l’agio necessari. In ogni caso, non ci sarebbero più frontiere blindate, muri di Tijuana o Stretti di Gibilterra dove affogare nel tentativo di trovare una vita migliore. Si potrebbe continuare a lungo, naturalmente. Pura utopia (nel senso di fantasticheria senza fondamento)? Forse. Però: come mai questo “altro mondo possibile” affascina sempre più persone, pur tanto diverse tra loro? Può essere che tutto questo sia, in effetti, necessario, più che possibile. In fondo, un vecchio slogan del 68 francese diceva: «Siate realisti, chiedete l’impossibile». O, come dice il titolo del numero di Carta che racconta Firenze, «è l’invasione degli ultraterrestri: gli alieni è gente come Bush e Berlusconi».
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