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Il sogno della Svizzera, l'incubo dei subappalti
di
Can Tutumlu
La famiglia Ciarrocchi* ha un sogno: riuscire a venire in Svizzera. È già tutto pronto, il papà farà il minatore all’Alptransit. Il contratto di lavoro è di tutto rispetto, all’“avanguardia” come diceva il bando di concorso, e lo scavo durerà almeno un decennio. Dall’Abruzzo a Bodio, con tutta la famiglia appresso. La mamma potrà restare a casa coi tre figli adolescenti, lo stipendio da minatore della galleria più lunga del mondo lo avrebbe potuto permettere, e i figli potranno studiare nella zona. Il cantiere “del secolo” non poteva offrire condizioni lavorative da medioevo, ne sarebbe andato della sua immagine e della credibilità dei politici che spingevano per il traforo. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Ne è una prova la storia di questa famiglia abruzzese finita per necessità nelle maglie dei subappalti del cantiere, più precisamente alla cantina – la mensa per i minatori – Beretta e Mainardi (B&M) di Roveredo. Pochi mesi di lavoro nelle viscere della montagna e il papà di Giulia* sta male. Non può più lavorare. La moglie e la figlia più grande, che all’epoca aveva 19 anni, si danno da fare per trovare lavoro. Giulia fa la cameriera per 2’790 franchi lordi – e, inizialmente, senza alcun contratto collettivo di lavoro (ccl) – per la B&M. Sua madre invece trova lavoro come donna delle pulizie per le baracche dei minatori per pochi soldi in più. «Non davano più vita alle persone. Mi facevano iniziare alle 4 di mattina e facevo il continuato fino alle 2 di pomeriggio. Per una giovane come me non era più una vita degna d’essere vissuta. Non c’era neanche il tempo per sorridere alla gente, nessun rapporto umano, neanche un attimo per respirare – racconta tutto d’un fiato Giulia prima di riprendere nuovamente il filo dei ricordi –. Alla cantina ci facevano fare di tutto. Alle 6 si iniziava con la pulizia. Io pulivo la saletta dove mangiavano i capi, poi la sala giochi. Tutto questo doveva essere fatto entro le 10. Poi dalla pulizia si passava direttamente in cucina. Poi di nuovo a lavare piatti, correre a dare da mangiare ai minatori e ai loro superiori. Dopo ancora ai piatti. Sul contratto c’erano scritte 9 ore lavorative ma era impossibile stare in questi orari. Io come minimo facevo tutti i giorni 10 ore e gli straordinari non mi venivano pagati». Nel 2002 l’allora Sindacato Edilizia e Industria (Sei, ora confluito in Unia) aveva aperto una vertenza con la ditta B&M, che aveva ottenuto l’appalto dal Consorzio Tat per gestire le mense per gli operai di Bodio e Faido. Il braccio di ferro era dovuto al rifiuto da parte della B&M di sottostare al contratto mantello del settore della ristorazione. «Siamo solo una mensa da cantiere e non un esercizio pubblico», così si difendevano i titolari. L’8 luglio 2003, un paio di mesi dopo lo scandalo dei lavoratori in nero trovati nella cantina di Bodio, l’Ufficio di controllo del contratto collettivo nazionale di lavoro per gli alberghi, ristoranti e caffè sanciva definitivamente che le due mense Alptransit di Bodio e Faido dovevano essere sottomesse in qualsiasi caso al contratto nazionale mantello. A fine novembre Giulia riceve una lettera da parte del sindacato Ocst: «siamo certi di fare cosa gradita allegandovi il nuovo ccl che entrerà in vigore il primo gennaio 2004», vi stava scritto in grassetto. La ragazza scopre che con il “nuovo” ccl non le verrà più corrisposta la tredicesima, «ma questa è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La verità è che io mi stavo rovinando la vita a 20 anni per quattro soldi». Giulia lascia precipitosamente il lavoro, non ce la fa più. Ora a distanza di un anno ha deciso di adire alle vie legali, supportata dal sindacato Unia. «Non lo faccio solo per i mille franchi di straordinari che mi devono – dice ad area –. Io voglio che i padri e le madri di famiglia non possano più essere sfruttati in quelle cantine. Voglio che il ccl farsa che ci hanno fatto firmare venga abolito e sostituito con quello nazionale della ristorazione che offre più dignità al lavoratore». Per fortuna il padre di Giulia è guarito, ha trovato lavoro sempre nel settore dei trafori ma non più all’Alptransit. Giulia attualmente ha 21 anni, è disoccupata. Ha deciso di concludere gli studi che aveva interrotto a causa del trasferimento nella “terra promessa”. * i nomi sono di fantasia
Pubblicato il
08.07.05
Edizione cartacea
Anno VIII numero 27-30
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