In vista della votazione del prossimo 22 settembre sulla riforma della riforma previdenziale (riforma LPP) riproponiamo l’intervista pubblicato qualche mese fa al giornalista Pietro Boschetti, specializzato nella storia della previdenza vecchiaia in Svizzera e autore di un recente libro sul ruolo degli assicuratori privati nella creazione del sistema dei tre pilastri Pietro Boschetti, dopo l’accettazione, nel 2023, dell’aumento dell’età pensionabile delle donne, quest’anno si torna a votare sul tema pensioni. Il 3 marzo è stata accettata l’iniziativa sindacale per una 13esima AVS e bocciata quella dei liberali che mira a un innalzamento dell’età pensionabile. E sempre quest’anno si voterà sul referendum contro la riforma della LPP. Siamo in un momento decisivo per il futuro della previdenza vecchiaia svizzera? Penso proprio di sì. Siamo di fronte a un anno spartiacque che determinerà il quadro dentro il quale verrà creato il sistema previdenziale svizzero dei prossimi cinquant’anni. Ad essere determinante saranno i rapporti di forza che scaturiranno da queste votazioni. Siamo di fronte a delle enormi sfide per quanto riguarda la previdenza vecchiaia e se la destra vincerà tutte e tre le votazioni potrà fissare le sue regole. Un po’ come nel 1972, quando il popolo accettò a larga maggioranza il progetto del Consiglio federale, concepito in realtà dal settore delle assicurazioni private, che di fatto iscrisse nella Costituzione il principio dei tre pilastri. L’attuale sistema, basato su rendite AVS insufficienti e sulla capitalizzazione del secondo pilastro, è figlio di quella scelta e dei rapporti di forza politici scaturiti da questa votazione. Questa volta, la tredicesima AVS è passata. Come lo spiega? Ritengo AVS 13 l’iniziativa più intelligente lanciata dalla sinistra negli ultimi quindici anni. Penso inoltre che la votazione sia arrivata al momento giusto, in un contesto di crisi del potere d’acquisto e con un numero sempre maggiore di pensionati che fa fatica a fare quadrare i conti a fine mese. Ancora oggi, ancorché insufficienti, le rendite AVS sono la sola entrata di denaro sicura per una grande parte della popolazione anziana: aumentare queste rendite del primo pilastro, l’unico realmente sociale, è quindi il metodo migliore per combattere la precarietà dei pensionati. Da un punto di vista politico cosa ha comportato vincere questa votazione? La sinistra non esce spesso vincente dalle urne. Fa eccezione l’ambito delle pensioni, a patto che il fronte progressista e sindacale si presenti unito. Ciò che è stato il caso con l’iniziativa AVS13. La sinistra ha avuto davanti a sé una grande opportunità per lanciare un messaggio politico forte alla destra: portando a casa questa iniziativa ha marcato un punto fondamentale nei rapporti di forza che determineranno il futuro previdenziale della Svizzera. La vittoria del 3 marzo ha significato dire che la popolazione svizzera vuole un primo pilastro dignitoso. Per avanzare da un punto di vista progressista in questo ambito occorre proprio che l’AVS possa fornire rendite più cospicue, rompendo di fatto lo status quo iniziato nel 1972 e che fa tuttora sì che – per la gioia degli assicuratori privati – il primo pilastro copra solo il minimo vitale. Pietro Boschetti, torniamo proprio al 1972. Su cosa era chiamato a decidere il popolo allora? Il Partito del lavoro (PDL), di matrice comunista, aveva lanciato un’iniziativa per una super AVS. Il Consiglio federale, con l’appoggio della gran parte delle forze politiche e sociali, compresi il Partito socialista svizzero (PSS) e l’Unione sindacale svizzera (USS), creò un controprogetto che puntava sul principio dei tre pilastri. Quest’ultimo ottenne il 75% dei consensi. Che ruolo ebbero le assicurazioni private nello stabilire questo sistema? Il sistema dei tre pilastri con un’AVS minima promosso dal Consiglio federale è stato concepito in precedenza dalla lobby delle assicurazioni vita. Le casse pensioni erano già esistenti, ma gli assicuratori hanno visto l’ambito della provvidenza professionale come un grande mercato nel quale espandersi. Non a caso, quattro giorni dopo il voto popolare, l’associazione delle assicurazioni si ritrova in un’assemblea dove si felicitano della vittoria e si leccano di fatto i baffi. Oggi le assicurazioni vita fanno il 60% dei loro affari sul secondo pilastro. L’ammontare di quest’ultimo è oggi stimato a 1.200 miliardi. Soldi che vanno a irrigare le cifre d’affari delle stesse assicurazioni, delle banche e delle moltitudini di società che si occupano di gestione di fortuna. Come mai la sinistra e i sindacati appoggiarono tale proposta? Bisogna mettersi nel contesto dell’epoca. In seno al PSS e anche all’USS vi è allora un forte anticomunismo che fece sì che era politicamente impossibile sostenere un’iniziativa del PDL. Inoltre va detto che già a partire dagli anni Trenta si è assistito a un processo d’integrazione della sinistra politica e sindacale in un’ottica di concordanza e di pace del lavoro. A ciò va poi aggiunto il fatto che la proposta del Governo era carica di promesse che non vennero poi mantenute quando, nel 1985, entrò in vigore la Legge sulla previdenza professionale (LPP). Cosa accadde a proposito di questa legge che ci mise 13 anni a entrare in vigore? Il progetto di legge fu portato avanti inizialmente dal consigliere federale socialista Hans-Peter Tschudi. Quest’ultimo tentò di tenere conto di quanto promesso in sede di votazione, ad esempio generalizzando il primato delle prestazioni (favorevole ai pensionati) anziché quello dei contributi (favorevole alle assicurazioni) o tenendo in conto del rincaro. La destra e le lobby assicurative non erano certo contente di questo approccio per cui in sede parlamentare – e con Tschudi che lasciò il Governo nel 1974 – il progetto di legge venne praticamente riscritto in funzione delle esigenze delle grandi assicurazioni private. Tra queste esigenze vi era una sorveglianza minima che secondo lei portò al cosiddetto scandalo dei 20 miliardi. Ci può dire di che cosa si tratta? La legge prevedeva il versamento ai contribuenti dei proventi dei risparmi pensionistici degli assicurati investiti sui mercati finanziari. Il tasso di interesse su questi attivi era fissato a un minimo del 4%. Tuttavia, negli anni 90, il rendimento degli attivi investiti sui mercati finanziari poteva raddoppiare o addirittura triplicare, raggiungendo il 12% o più. La legge non menzionava questa possibilità e non prevedeva la distribuzione di queste eccedenze impreviste superiori al 4%. Nel 2001, parlamentari non solo di sinistra se ne resero conto e stimarono che tra il 1985 e il 2000 gli assicuratori avevano accumulato un totale di 20 miliardi di franchi nelle loro attività di assicurazione professionale. Questo denaro non è mai stato restituito agli assicurati. Ciò che a mio avviso è uno scandalo. Il Parlamento si occupò della vicenda. Che cosa ne scaturì? Le lacune dell’ufficio preposto alla sorveglianza furono evidenti al punto che esso fu sciolto e la vigilanza è stata poi affidata alla FINMA. La distribuzione delle eccedenze è stata stabilita per legge, utilizzando il cosiddetto sistema della legal quote (quota legale). Dal 2005, il 90% di queste entrate è andato agli assicurati e il 10% agli assicuratori e ai loro azionisti. Di conseguenza, questi ultimi ricevono somme colossali senza dovere nulla in cambio. In meno di vent’anni, il totale è stato di quasi 9 miliardi di franchi svizzeri. Si tratta di un profitto garantito dalla legislazione federale. I sostenitori della legal quote sostengono che questo sistema garantisce la solvibilità degli assicuratori. È una giusta ricompensa per l’assunzione di rischi, una sorta di garanzia del deficit. Ma le perdite sono rare. Solo una volta dal 2008 una compagnia assicurativa ha dovuto ricorrere ai propri fondi per salvarsi. Il danno è stato di centinaia di milioni, recuperati in meno di due anni. |