Il secondo pilastro non è più un tabù

Non è più un tabù, fra i sindacati, il secondo pilastro obbligatorio. Il congresso dell’Uss ne ha discusso l’abolizione. Un’iniziativa in tal senso, e per potenziare l’Avs, sarà forse lanciata da chi ha difeso quella posizione. Al di là di valutazioni politiche, vi sono ragioni per tale scelta fondate sul confronto fra le assicurazioni sociali e la previdenza professionale. Nell’ambito della disoccupazione, infortunio, malattia e invalidità si è confrontati ad un rischio che si realizza pesantemente solo per alcuni: occorre dunque una vasta comunità di assicurati che generi le risorse necessarie, con contributi alla portata di tutti, affinché possa giocare la solidarietà reciproca: gli occupati sosterranno i disoccupati, le persone sane gli ammalati, gli infortunati, gli invalidi. L’obbligo di assicurarsi è decisivo. Ve la immaginate un’assicurazione contro la disoccupazione facoltativa? Chi è occupato in settori più garantiti, è dotato di grandi competenze professionali, o dispone di patrimoni utilizzabili nei periodi senza reddito, non avrebbe interesse ad assicurarsi, se non a premi bassissimi. I meno qualificati, precari, senza patrimonio, occupati in settori o regioni più vulnerabili, insomma i più esposti al rischio di disoccupazione, non potrebbero assicurarsi perché dovrebbero pagare premi proibitivi. Nell’ambito della vecchiaia, la situazione è diversa: essa non è un “rischio”, è una condizione normale nel ciclo di vita di ognuno. La garanzia di un reddito modesto ma sufficiente – come quello garantito dalle prestazioni complementari all’Avs – è irrinunciabile in una società civile: per tutti, anche per chi non ha potuto versare contributi sufficienti per disporre di una rendita quando non lavorerà e guadagnerà più. Il secondo pilastro non contribuisce a questo obiettivo. Si tratta di una previdenza individuale, basata sulla “capitalizzazione”, cioè sul principio di equivalenza: chi paga riceve, senza trasferire nulla a nessuno. Il sistema, per funzionare, non ha bisogno che tutti vi partecipino. Basta un esempio. Un salariato che comincia con uno stipendio di 60 mila franchi all’anno e che cresce dell’1 per cento, se destina a un fondo vincolato il 20 percento del suo guadagno e l’interesse che ne ricava è del 3 per cento, dopo 40 anni dispone di un capitale di oltre 1 milione di franchi. Combinando prelievi sul capitale e interessi disporrà per più di 20 anni di oltre 50 mila franchi all’anno (circa il 60 percento del suo ultimo stipendio) senza nessun trasferimento “di solidarietà”. L’obbligo che tutti contribuiscano non serve, e ciò che non è necessario è superfluo… mentre è fondamentale potenziare la rendita di base che beneficia anche e soprattutto a chi (redditi modesti e discontinui) non può “capitalizzare” . Per saperne di più: Rossi M., Sartoris E., Ripensare la solidarietà, A. Dadò editore, Locarno 1995

Pubblicato il

15.11.2002 14:00
Martino Rossi