La quinta revisione dell'Assicurazione invalidità (Ai) non piace né alla sinistra né alle organizzazioni che difendono i diritti delle persone andicappate. Eppure nessuno o quasi sembra disposto a lanciare il referendum. Tutti temono la demagogia dell'Udc, che ponendo l'accento sugli abusi avrebbe partita vinta come sugli stranieri e sull'asilo. Così finora soltanto una piccola organizzazione di aiuto agli andicappati con sede a Zurigo, il Zentrum für selbstbestimmtes Leben (Zsl, Centro per una vita autodeterminata) ha annunciato il lancio del referendum. Le grandi organizzazioni di aiuto alle persone con andicap vi hanno rinunciato. E senza di loro nell'avventura non si butta nemmeno l'Unione sindacale svizzera (Uss, cfr. articolo sotto). Quanto al Partito socialista svizzero (Pss) deciderà nella riunione di direzione del 27 ottobre se sostenere il referendum. Ma è poco probabile che ciò accada: il Pss ha altre priorità, come l'iniziativa per l'armonizzazione fiscale, la votazione sulla cassa malati unica federale e l'eventuale referendum sulla riforma della fiscalità delle aziende. Al direttore del Zsl, Peter Wehrli, abbiamo chiesto perché la sua piccola organizzazione si sia gettata in questa grossa avventura.

Peter Wehrli, come giudica la decisione dei sindacati di non sostenere un referendum contro la quinta revisione dell'Assicurazione invalidità (Ai) se questo non è lanciato dalle grosse organizzazioni svizzere degli andicappati?
È giusto che su questioni che concernono l'andicap i sindacati chiedano prima che cosa intendano fare alle organizzazioni che curano gli interessi dei portatori di andicap. Non sta ai sindacati prendere decisioni al posto dei diretti interessati. Per questo non ce l'ho con i sindacati che dicono di no al lancio del referendum.
Ce l'ha invece con le grosse organizzazioni che operano per gli andicappati.
Esatto. Diversamente da noi pensano ancora in termini di carità, di elemosina. Vogliono rimanere buoni, sperando di ricevere ancora qualche soldo. Malgrado l'enorme pressione che si esercita su chi è invalido. La nostra organizzazione ha un'attitudine più politica, basata sui diritti umani: per noi centrale è l'integrazione degli invalidi. Questa revisione dell'Ai dichiara di voler favorire l'integrazione, ed è giusto, perché soltanto l'integrazione può risolvere i problemi dell'Ai. Ma questa revisione non promuove l'integrazione, essa la consegna nelle mani dei professionisti. Ecco perché questi professionisti non si oppongono: perché sperano di ricevere più soldi per le loro organizzazioni da investire in misure cosiddette d'integrazione. Tacciono in cambio di un'ulteriore elemosina: in gioco c'è parecchio denaro, alcune centinaia di milioni. In un certo senso hanno venduto gli andicappati.
A chi indirizza in particolare questa critica?
All'organizzazione mantello, un'organizzazione che pochi conoscono, la Federazione svizzera per l'integrazione degli andicappati (Fsia). Per il 90 per cento la Fsia è costituita da organizzazioni di ogni genere ma non di andicappati, mentre solo il 10 per cento sono organizzazioni di andicappati: e di questo 10 per cento solo la metà sono organizzazioni di autoaiuto per andicappati. Nella Fsia dunque solo una piccola parte sono andicappati. A quanto mi consta poi il presidente della Fsia Marc F. Suter, che è molto influente, ha esercitato una forte pressione perché il tema venisse messo a tacere, e questo benché in gran parte le organizzazioni di autoaiuto avrebbero voluto il referendum.
Così un mese fa avete lanciato un appello alle organizzazioni di andicappati perché promuovessero il referendum.
Sì. Abbiamo messo una lista d'adesioni in internet in cui invalidi, parenti e amici potessero sottoscrivere un appello in questo senso. Le reazioni sono molto positive: da un lato riceviamo molte lettere anche toccanti, dall'altro c'è chi pone la questione della decenza delle organizzazioni di andicappati: non si capisce come organizzazioni che ricevono soldi dallo Stato e dai cittadini per difendere gli interessi degli andicappati ora possano tacere. C'è molta delusione fra chi è toccato direttamente dal problema.
Avete un budget?
No, nulla. Solo un paio di donazioni per poche migliaia di franchi. Abbiamo soltanto gente che lavora. Le nostre armi sono le persone e internet. Nel nostro sforzo ci aiuta finora soltanto "Cap-Contact", un'organizzazione romanda piccola come la nostra.
In Ticino c'è qualcuno che vi aiuta per il referendum?
Avevamo avuto assicurazioni un paio di mesi fa dai più alti vertici delle organizzazioni di andicappati ticinesi che ci avrebbero sostenuto. Ora si sono ritirati. Siamo molto delusi di questo passo indietro a seguito della pressione esercitata su di loro. In questo modo noi direttamente non abbiamo contatti con gli andicappati in Ticino.
Non ha paura di una secca sconfitta alle urne di fronte alla demagogia dell'Udc?
No. Possiamo solo vincere. Perdere non possiamo. Noi sosteniamo che la quinta revisione dell'Ai è una cattiva revisione in quanto fa promesse che non è in grado di mantenere. Noi riteniamo che l'integrazione è un compito che spetta a tutta la popolazione e a tutta l'economia di questo paese, non la si può delegare all'Assicurazione invalidità. E abbiamo tutta una serie di richieste affinché l'integrazione si possa realmente compiere. Quindi il no alla quinta revisione dell'Ai è per noi un sì a queste richieste. Sappiamo che molti oggetti devono tornare più volte di fronte al popolo perché siano accettati. E sarà così anche per l'integrazione degli andicappati. Saremmo felici se con questo referendum si facesse un passo nella giusta direzione, ma non ci facciamo illusioni. Quel che ci interessa ora è porre il tema dell'integrazione. Prima o poi il popolo capirà e accetterà.

Unia: tre argomenti per dire no

«Ci sono buoni motivi per lanciare il referendum. La quinta revisione dell'Ai è infatti una tipica operazione di smantellamento sociale». Rita Schiavi, membro della direzione del sindacato Unia, non ha dubbi quando elenca gli argomenti per il referendum: «Primo: si fanno pagare i piccoli miglioramenti relativi alle misure di reinserimento a chi già riceve una rendita, quando si sa che chi vive dell'Ai non è ricco (la maggior parte è ridotta al minimo esistenziale). Secondo: anche con queste misure non si risana l'Ai, mentre si sa che ulteriori finanziamenti saranno necessari; eppure su questo punto il parlamento non ha preso nessun impegno. Terzo: non si introduce nessun obbligo per i datori di lavoro, ma le misure di reinserimento professionale non servono a nulla se non ci sono i posti di lavoro necessari. Quello del reinserimento prima della rendita non è un principio nuovo, c'è sempre stato nella legge svizzera. E fino all'inizio degli anni '90 questo principio ha sempre funzionato, infatti avevamo una quota di beneficiari di rendite molto bassa. Ma da allora mancano i posti di lavoro perché le ditte non li hanno più messi a disposizione: ecco perché i costi per le rendite sono diventati così alti».

Pubblicato il 

20.10.06

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