Società

«Il razzismo strutturale è ancora parte della nostra società»

S’intitola La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri il nuovo film del regista Samir presente quest’anno nel programma del Locarno Film Festival. Si tratta di un’opera monumentale che ricostruisce a fondo numerosi aspetti del difficile rapporto tra la Svizzera e la popolazione migrante durante la seconda metà del Novecento.   

A partire dagli anni Sessanta la classe operaia in Svizzera ha cambiato pelle. Dal meridione d’Europa sono arrivate centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che hanno segnato la storia della Confederazione. Si è trattato di un processo drammatico, che ha lasciato profonde ferite nella popolazione straniera e trasformato irreversibilmente l’economia, la società, la cultura. Il regista Samir si mette in gioco in prima persona e attraverso la ricostruzione – con le tecniche innovative del motion capture e del videogioco – della sua esperienza di migrazione da Bagdad a Zurigo, ci riporta a un’epoca in cui lotta di classe e lotta per i diritti umani erano strettamente connesse. Abbiamo incontrato Samir ai margini dell’anteprima del film dell’11 agosto organizzata ad Ascona dal comitato ticinese per l’Iniziativa per la democrazia e dal sindacato Unia, che ha sostenuto la produzione del film insieme all’Unione sindacale svizzera.

 

Samir, lei ha iniziato a lavorare a questo film qualche anno fa, ha svolto delle ricerche molto approfondite e coinvolto moltissime persone. Quali nuove consapevolezze ha oggi rispetto a ciò che ci ha raccontato?

 

Ho incontrato personalità e storie sorprendenti, sono venuto a conoscenza di episodi di storia della migrazione che non conoscevo. In generale ho però capito meglio le origini del sistema discriminatorio, che prende il nome soprattutto di Statuto di stagionale, messo in atto nei confronti degli stranieri. Questo è stato introdotto negli anni Trenta, in un’epoca in cui l’ideologia fascista influenzava un po’ tutta Europa, e perdura anche oggi, benché lo Statuto di stagionale sia stato abolito a inizio millennio. Il sistema è oggi certamente più raffinato, meno palese, ma di certo non meno efficace. Il razzismo strutturale è ancora qui, soprattutto per chi proviene da paesi extraeuropei.

 

Perché ha scelto la tecnica del motion capture e del videogame per raccontare la sua storia personale?

 

Quando in un documentario un regista si mette in scena è sempre difficile raccontare per immagini. Di solito si utilizza il voice over in combinazione con immagini riempitive. Attraverso le tecniche del motion capture e del videogioco ho cercato di raccontare la mia storia personale attraverso immagini più coinvolgenti. Inoltre, rispetto all’animazione classica, molto costosa, questa tecnica mi ha permesso di risparmiare e di intervenire direttamente durante le riprese.

 

Durante questi mesi ha già mostrato alcune sequenze del suo film soprattutto nel contesto della campagna a favore dell’Iniziativa per la democrazia. Perché questa scelta?

 

Come cineasta sviluppo le mie idee in dialogo con altre persone. Discutere del progetto e mostrare il film nel suo farsi era per me importante. Il fatto di averlo fatto nel contesto di una campagna per i diritti delle persone senza passaporto, quindi in relazione con la materia del mio film, è stato un caso fortuito che mi ha fatto davvero piacere. 

 

Il suo film è anche un omaggio ai lavoratori e alle lavoratrici del secondo Novecento. Oggi si fa fatica a parlare ancora di classe operaia, eppure ci sono segnali in controtendenza. È il momento giusto forse per ritrasformare gli stranieri in classe operaia in Svizzera?

 

La classe operaia di cui parlo era organizzata dai partiti di sinistra e dai sindacati ed era molto consapevole di sé stessa, delle proprie potenzialità. Oggi non è più così o almeno è così soltanto per una parte minoritaria della classe lavoratrice. È necessario ricostruire consapevolezza in seno a tutta la classe lavoratrice e contribuire a ridarle voce. Il mio film ha anche questo obiettivo.  

 

Nel suo film si parla soprattutto di classe operaia italiana. A tal proposito muove anche una critica al Partito comunista italiano (Pci) accusandolo di non essersi occupato più di tanto dei diritti dei migranti italiani in Svizzera. Può entrare nello specifico?

 

I lavoratori italiani in Svizzera a un certo punto si rendono conto che la loro battaglia ha a che fare non soltanto con le condizioni di lavoro, ma anche con i diritti umani. I dirigenti del Pci, molto forte tra gli italiani in Svizzera, secondo me non hanno colto questo aspetto e hanno continuato a rappresentare gli interessi dei lavoratori italiani soprattutto in ambito italiano. Con questo non intendo sminuire il grande lavoro fatto dai militanti comunisti italiani presenti in Svizzera che si sono spesi molto per i propri connazionali.        

 

A proposito di classe operaia italiana: che idea si è fatto della debolezza del movimento dei lavoratori in Italia negli ultimi decenni?

 

È un tema complesso. Credo che la paura della deindustrializzazione abbia giocato un ruolo fondamentale tra gli anni Settanta e Ottanta. C’è stata anche una graduale presa di distanza dei dirigenti politici dalle lotte operaie. Anche intellettuali e artisti, garanti dell’egemonia culturale operaia, hanno cominciato a rivolgere lo sguardo altrove.

 

Nel film si parla anche di Europa e dell’introduzione in Svizzera della libera circolazione. Quale è il suo rapporto personale con l’Unione europea?

 

Non ho un legame emotivo con le istituzioni europee. Penso però che sia fondamentale per la Svizzera diventare parte attiva del progetto europeo. Non è possibile continuare ad adeguarsi alle leggi e ai regolamenti europei senza prendere parte ai processi decisionali a Bruxelles.

Pubblicato il

08.08.2024 11:35
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