Sta capitando una sorta di rovesciamento politico-economico. Che forse esprimerà nuove idee-forza. Le quali finiscono poi per imporsi. Scaturiscono da due fatti. Il primo è la svolta politica che sta imprimendo il presidente Biden. Non è il caso di divinizzare. Vi si può però riconoscere l’ammissione implicita del fallimento di un’ideologia che ci ha dominato per mezzo secolo e la necessità di un cambiamento. Il secondo è l’instaurazione di un’imposta minima mondiale sulle imprese (multinazionali). Con Biden sorge spontanea una domanda: stiamo superando il neoliberalismo, dopo averne riconosciuti danni e fallimenti? La risposta può essere solo parziale; ignoriamo come evolverà quella politica. Ci sono però già elementi di rottura rispetto ai dettami neoliberisti. La visione economica di Biden parte dai bisogni. È la volontà di migliorare le infrastrutture che costituiscono la base dell’economia (vie di comunicazione, ad esempio), ma allargandosi a educazione, salute, alloggio sociale. Le critiche mosse dai neoliberali danno il senso della rottura: quelle spese non possono smuovere la crescita; se ci sono bisogni insoddisfatti, non tocca allo Stato soddisfarli, aumenterà il debito, ci si espone al rischio dell’inflazione; solo l’offerta produttiva, la concorrenza, il mercato, potranno soddisfarli. Biden risponde aumentando le imposte sulle società con lo scopo di “socializzare” una parte dei profitti per metterli a disposizione dei bisogni collettivi. Una inversione di rotta rispetto a quanto è avvenuto dagli anni 60. Debito e inflazione non sono più costrizioni insuperabili per l’azione a lungo termine dello Stato, tanto (vedi Svizzera) da inserirli come principi nella Costituzione e da rendere il cortoterminismo (il ragionare solo sul breve termine) il criterio preferito dalla politica. Ma quella di Biden è anche rifondazione democratica, impegnandosi sulle ineguaglianze, con la ridistribuzione della ricchezza creata, con maggiori investimenti sociali, con il rialzo delle imposte sulla ricchezza. Ed è pure la rifondazione ecologica, che occupa quasi la metà del piano di investimenti. Quindi, se c’è rottura, sta nella concezione stessa dello Stato: se prima si ammetteva che poteva intervenire per “riparare” devianze o malefatte del mercato e solo a breve termine, Biden vuole «uno Stato continuo, presente sul lungo corso». È il ritorno del primato della politica, per il bene comune, sull’economia, che ha privatizzato anche lo Stato. E i bisogni identificati, cui far fronte, devono essere la risposta alla crisi democratica, sociale ed ecologica. L’instaurazione di un’imposta minima mondiale sulle imprese multinazionali, su cui ne sapremo di più nel mese di luglio (e bisognerà riparlarne), è pure un capovolgimento. Il calo continuo delle tasse sulle imprese è una legge “globale” che dura ormai da quarant’anni sempre in nome della concorrenza fiscale; una legge che, si calcola, ha permesso alle multinazionali di sottrarre il 40 per cento dei loro profitti al fisco, un recupero di 150 miliardi di dollari per gli Stati. Il colpo sarà duro per la Svizzera che ha sempre giocato sulla concorrenza fiscale (tra cantoni!); si dimostrerà forse che non sono la leggerezza o lo sgravio fiscali a fare la forza di un’economia, ma gli investimenti nella ricerca, la formazione, le università e la stabilità sociale ed economica che è data anche dalle condizioni di lavoro e dai salari, il livello di vita della popolazione, la certezza del diritto, infrastrutture e servizi moderni. E sarà ancora l’esterno, Biden, non l’Unione europea, a farcelo capire. |