Responsabilità: «parola che sarà sempre la punta di diamante con cui i tiranni dovranno fare i conti fino alla fine dei giorni». Potrei fare molte altre citazioni da questo straordinario, tremendo "Necropoli" di Boris Pahor, (Fazi, 2008): umana testimonianza dell'assoluta disumanizzazione dell'uomo. Il "mondo crematorio" è qui descritto, con magistrale elaborazione letteraria, dall'interno della dannazione. Dall'inferno. L'esame del pube in cerca di pidocchi; la massa multicefala china sui cucchiai di legno; le tenaglie chiuse sul collo dei cadaveri; i rapati vaganti come sonnambuli; il «ghigno del forno sempre acceso»; l'acqua delle docce scaldata dal fuoco dei morti; i capelli usati per fabbricare panni e coperte; la sentinella che spara al ragazzo con il secchio d'acqua; le baracche della merda; l'orto del comandante concimato con le ceneri e le ossa: sono solo alcuni particolari di quest'opera sconvolgente, che si aggiunge alle opere che già conosciamo, prima fra tutte quelle di Primo Levi. Che conosciamo ma che non scalfiscono il razzismo e l'antisemitismo dilaganti e ora alimentati dalla guerra israelo-palestinese. Boris Pahor, sloveno nato a Trieste nel 1913, racconta il predominio del male. Deportato per aver collaborato con la resistenza antifascista slovena, sopravvive nei campi di sterminio nazisti grazie al suo lavoro di infermiere. Ma la sua angoscia comincia presto, da ragazzino, quando a Trieste vede i fascisti cospargere di benzina il teatro sloveno e darlo alle fiamme, per poi danzare intorno al grande rogo. È allora che comincia il trauma del sentirsi colpevole: colpevole di parlare la lingua con la quale ha conosciuto il mondo e amato i genitori. Colpevole di esistere, come gli ebrei e gli zingari, vittime della "difesa della razza". "Necropoli" è un libro, uno dei tanti pubblicati da questo grande scrittore, che ci aiuta a tener sveglia la coscienza. Scritto da un «uomo vivo nella città dei morti», come dice Claudio Magris nella prefazione, il libro «riesce a fondere l'assoluto dell'orrore con la complessità della storia». Sono pagine da far leggere a tutti i negazionisti, a cominciare dal vescovo lefebvriano Williamson, vergognosamente riabilitato dal papa. D'altronde, da una chiesa che con Pio XII a suo tempo non ha saputo condannare con fermezza la Shoah e che fino a poco fa parlava nelle sue preghiere di perfidi ebrei e che ancora oggi, con il retrogrado Ratzinger, lascia vivere al suo interno una corrente antigiudaica radicata nella tradizione, da una chiesa che ha insegnato il disprezzo è difficile aspettarsi un vero rinnovamento. E neanche da un paese come l'Italia che non si vergogna di avere come primo ministro uno che racconta barzellette sull'Olocausto. |