Operare a favore delle altre persone non è qualcosa di scontato. Mettere gli altri al primo posto delle proprie attenzioni non è ovvio, nemmeno per quanti lo fanno per mestiere o per scelta di vita. La naturale tendenza umana a fare costante riferimento a sé, partendo dalla propria sensibilità ed esperienza, spinge chiunque a mettere in secondo piano l'altro e a riconoscergli quindi un posto, in una qualche maniera, subalterno o vincolato. Spesso ci si pone di fronte all'altro come se si trattasse in primo luogo di offrirgli qualcosa: un consiglio, un sostegno morale, un aiuto materiale, comprensione, amicizia, eccetera. In tal modo, si stabilisce con l'altro una relazione di bisogno o di dipendenza. In tale prospettiva, l'altro è anzitutto colui che chiede un servizio o necessita di un contributo.
Dare la propria vita per coloro che si amano può sembrare un atto logico, di cui nessuno mette in dubbio la pertinenza. Ce l'insegnano tutte le grandi tradizioni spirituali del mondo. Per contro, esige uno sforzo supplementare l'agire per il bene dell'altro per il semplice fatto che l'altro è diverso da me e che, come minimo, ha gli stessi diritti che chiedo mi siano riconosciuti. La famosa "regola d'oro" ("Fai all'altro come vuoi sia fatto a te") evoca, per l'appunto, questa convinzione di fondo: la misura che applichiamo agli altri è il termine di paragone del nostro agire. L'esigenza dell'altro di essere accolto come anch'io domando di essere accolto, diventa la cartina di tornasole, il criterio di giudizio di qualsiasi nostra azione e delle intenzioni che la guidano. Al lato pratico, tuttavia, ciò non va sempre da sé, poiché l'amore non è soltanto emozione e sentimenti, bensì soprattutto impegno e costanza. Inoltre, l'altra persona non si presenta sempre al nostro sguardo nelle sue forme migliori, specialmente se il nostro campo d'intervento è quello sociale, a contatto con situazioni di disagio ed emarginazione. In effetti, la condizione altrui può facilmente mettere in discussione le proprie convinzioni o le basi etiche e culturali sulle quali si è costruita la propria esistenza, ammesso e non sempre concesso che abbiamo le capacità d'individuare i veri bisogni degli altri, senza sottoporli subito ad un impietoso giudizio. In realtà, la necessità dell'altro dovrebbe essere il criterio di riferimento, prima della pura e semplice soddisfazione (per quanto legittima!) delle proprie aspirazioni.
Tutto questo domanda un cammino di superamento dell'autoreferenzialità, che significa liberarsi dai vincoli posti - spesso senza rendersene conto - alle esigenze altrui. I piccoli o grandi ricatti affettivi, che imponiamo agli altri per prestare loro l'aiuto chiesto, avvelenano sovente le nostre relazioni interpersonali, ma ci mostrano pure quanta strada abbiamo ancora da compiere (come individui e come collettività) perché il riconoscimento della dignità dell'altro venga in primo piano e sia un'autentica linea guida del nostro agire. Si tratta di abbandonare la paura dando spazio alla fiducia.

Pubblicato il 

21.03.08

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