Il popolo messicano va al voto

«Vogliamo educazione, salute, una strada d'accesso». Fernando* non esita ad elencare le necessità più urgenti della sua comunità. A C., un villaggio in piena Selva Lacandona, nello stato del Chiapas (Messico), non c'è scuola secondaria. Nella scuola primaria insegnano due maestri, scelti all'interno della comunità. I soldi per pagarli però non bastano. Nel puesto de salud si può ottenere della penicillina, qualche scatola di aspirina e poco più. Il promotore della salute locale fa il possibile per aiutare i suoi pazienti, ma quando le sue premure non bastano, bisogna ricorrere ai medici della città. Ciò significa sobbarcarsi otto ore di marcia, se va bene a dorso di mulo, e cinque ore di bus. L'unica alternativa è il piccolo Cessna che assicura giornalmente i collegamenti tra i villaggi della foresta e la città – condizioni meteorologiche permettendo. «Se qualcuno si ammala gravemente dobbiamo vendere una mucca per pagare l'aereo e le cure», osserva Juan*.
Nella sala comunitaria di C., una grande tettoia che protegge a stento dalla calura, siedono i delegati di vari villaggi della regione, per discutere delle prossime elezioni. Ospiti i rappresentanti di due Ong messicane e noi, osservatori svizzeri. L'interesse è grande, verso sera anche donne e bambini si accomodano sulle panche di legno. Ci è accordato lo spazio per porre alcune domande, di fronte a tutta la comunità e a microfoni aperti. «Che ne pensate delle elezioni?», chiediamo. «In passato i rappresentanti dei partiti ci hanno fatto tante promesse. Ormai non ci crediamo più. La maggior parte di noi non andrà a votare», afferma uno dei presenti. Attorno a lui solo cenni di assenso. Nessuno contraddice.

Le elezioni presidenziali e politiche del 2 luglio prossimo sono un banco di prova importante per la democrazia messicana. Nel 2000 la vittoria di Vicente Fox, candidato alla presidenza nelle liste del Partito di azione nazionale (Pan), aveva messo fine a 71 anni di potere del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), suscitando non poche speranze in un rinnovamento democratico del paese. A sei anni di distanza da quel voto storico, i sondaggi prevedono un testa a testa fra Felipe Calderón, candidato del Pan, e il candidato della sinistra Andrés Manuel López Obrador, del Partito della rivoluzione democratica (Prd), con un leggero vantaggio per quest'ultimo. Il capofila del Pri, Roberto Madrazo, appare irrimediabilmente distanziato. Il vecchio regime, con i suoi metodi autoritari e corrotti di gestione del potere, è dunque definitivamente superato? Il Messico si appresta a svoltare a sinistra, come hanno fatto negli ultimi anni molti paesi dell'America Latina? Nel suo programma elettorale López Obrador pone fra le priorità di governo il riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene, il rafforzamento della scuola e della sanità pubbliche, la lotta contro il degrado ambientale, l'uso dei surplus di bilancio derivati dalla vendita di petrolio per la creazione di nuovi posti di lavoro. Prima del 1994 l'ex-sindaco di Città del Messico era stato uno degli oppositori all'accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e ora vorrebbe ritrovare un maggiore equilibrio nei rapporti con il potente vicino.
Eppure anche a sinistra non mancano gli scettici. A molti non è piaciuta la disinvoltura con cui il Prd ha accolto centinaia di transfughi del Pri, saltati negli ultimi mesi sul carro del probabile vincitore delle elezioni di luglio. Alcune fra le critiche più severe a López Obrador sono venute dal subcomandante Marcos, portavoce dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln). Il movimento guerrigliero indigeno, protagonista nel 1994 di un'insurrezione armata nello stato messicano del Chiapas, ha lanciato nel giugno dello scorso anno un'iniziativa denominata la "otra campaña", che mira a creare un'alleanza tra i movimenti sociali di base, sottraendosi ai dilemmi di una scelta puramente elettorale. Sostanzialmente, gli zapatisti rinfacciano al candidato del Prd di non proporre una vera alternativa alla politica economica del governo di Vicente Fox, politica che avrebbe contribuito a far crescere il divario fra ricchi e poveri nel paese nord-americano. López Obrador è considerato parte di un sistema di partiti delegittimato, che non sa o non vuole dare risposte ai profondi conflitti sociali che lacerano il paese. E qualcuno ricorda che nel 1999 la direzione nazionale del Prd fu costretta alle dimissioni per brogli e corruzione.
Pur criticata da molte parti perché passibile di favorire la destra – di recente Marcos ha lasciato tuttavia intendere che la "otra campaña" potrebbe fornire la base sociale ad un governo Obrador che imboccasse una strada decisamente di sinistra – l'iniziativa zapatista ha avuto il merito di portare alla luce una faccia occultata della società messicana. «La otra campaña ha cominciato a rendere visibili una gran quantità di azioni repressive contro i movimenti sociali in tutto il paese», osserva Bianca Martinez, direttrice del Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas, con sede a San Cristobal (Chiapas). «Quella a cui stiamo assistendo è l'acutizzazione di una crisi delle istituzioni, incapaci di dare risposte alle domande sociali, alle domande di diritti formulate dalle fasce più sfavorite della popolazione, in particolare indigene. Questa crisi, che era già stata all'origine dell'insurrezione armata in Chiapas nel 1994, si traduce oggi in una forte sfiducia verso i partiti e verso le istituzioni partitiche». Paradossalmente, tutto ciò avviene mentre sul piano internazionale il governo messicano ha saputo profilarsi come deciso sostenitore dei diritti umani, ottenendo la presidenza del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, sorto ufficialmente lo scorso 19 giugno.
Il livello di conflittualità sociale presente nel paese alla vigilia delle elezioni si è palesato con particolare evidenza all'inizio di maggio nella località di San Salvador Atenco, a poca distanza dalla capitale federale. Il tentativo di sgombero di alcuni venditori di fiori da una piazza della città è sfociato in violenti scontri tra abitanti e polizia, costati la vita a due persone. Stando ai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International, molte delle persone fermate durante gli scontri sono state maltrattate e almeno 23 donne hanno subìto abusi sessuali in carcere. Indicativo è il fatto che nell'azione repressiva di Atenco siano coinvolti più o meno direttamente tutti e tre i grandi partiti messicani, che governano rispettivamente a livello municipale (Prd), statale (Pri) e federale (Pan). «Nel contesto pre-elettorale, i conflitti sociali si trasformano in una minaccia per chi detiene il potere», rileva Bianca Martinez. «Atenco è solo uno dei focolai disseminati in tutto il paese. C'è un gran numero conflitti che il governo attuale e quelli precedenti non hanno saputo risolvere. Il paese è in ebollizione».
Le tensioni che attraversano la società messicana alla vigilia del voto emergono anche da un rapporto realizzato da Peace Watch Switzerland, un'organizzazione non governativa svizzera presente da nove anni in Chiapas con un programma di osservazione dei diritti umani. Quindici volontari svizzeri hanno visitato tra febbraio e giugno gli stati del Chiapas, di Oaxaca e di Guerrero, incontrando rappresentanti di decine di organizzazioni e comunità indigene. Le testimonianze raccolte parlano di conflitti per la terra, di movimenti di resistenza contro grandi progetti stradali, idroelettrici e turistici, di repressione, dell'attività di gruppi paramilitari e di attacchi contro attivisti per i diritti umani, di emigrazione e di narcotraffico, di promesse elettorali e della compravendita di voti. Il bilancio è tutt'altro che positivo: «La mancanza di informazioni, la povertà, la distribuzione disuguale delle risorse come pure la corruzione rendono poco credibile il processo democratico in Messico», si legge nel rapporto. «Questa situazione è responsabile del prevedibile alto tasso di astensione alle elezioni e di un diffuso fatalismo».
A C. una donna si alza in piedi e chiede il microfono. Parla tzeltal, una lingua maya. Un interprete traduce: «I governi che stanno in alto non si curano di noi. Ma noi ci siamo organizzati. Abbiamo già cominciato a camminare. Che quelli che stanno in alto stiano in alto. Noi che stiamo in basso, dobbiamo lottare a partire dal basso».

* I nomi sono di fantasia

Pubblicato il

30.06.2006 03:30
Andrea Tognina
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