Diventa sempre più difficile pensare e vivere l’8 marzo coma la “giornata delle donne”. Se intuire le ragioni di tali difficoltà è relativamente facile, capirne le motivazioni profonde è un po’ più complesso. Cominciamo con il dire che fino a qualche anno fa sembrava naturale assimilare in un’unica entità le “donne”. Nella famiglia, nella professione, nella formazione, nella politica, nelle istituzioni, nello sport, ecc., appariva relativamente agevole individuare, per lo meno nel comportamento o negli atteggiamenti della maggioranza di esse, sensibilità comuni. Sensibilità che ovviamente erano poi interpretate in modi molto diversi tra loro da ogni donna, con competenze, percorsi, esperienze, attenzioni, interessi, emozioni profondamente individuali. Questa sensibilità condivisa era riconducibile all’esistenza di un percorso culturale, formativo ed emozionale proprio delle donne, riconosciuto e fatto proprio dalla società intera, in qualche modo separato e distinto da quello degli uomini. Un percorso identificato, da parte di una fetta considerevole della società e solo fino a pochi anni fa, con il ruolo biologico delle donne, cioè con il ruolo di madri votate a procreare e ad accudire i figli. Per le donne questo ruolo, con l’evolvere dei tempi, è diventato sempre più ingombrante e limitativo. Infatti, se da un lato era innegabile e vissuta positivamente l’esistenza di una cultura femminile, intesa come l’intreccio di sentimenti, sensibilità, emozioni, scale di valori, relazioni diverse da quelle degli uomini, dall’altra, nel nome di questo “ruolo” femminile, per molti anni si sono tenute lontane le donne sia dalle scelte cruciali, sia dai luoghi e dai ruoli delle decisioni importanti per la società. Poi è arrivato il tempo delle donne e le porte sembravano aperte, a tratti anzi sembrava più facile “fare carriera”per le donne che per gli uomini. Ma fin da subito si è evidenziato il prezzo da pagare. Conquistare questi spazi e questi diritti senza rinunciare contemporaneamente alla propria specificità diventava, e continua ad essere, un problema sempre più complesso e difficile. Forse perché, per lo meno fino a questo momento (e le prospettive non paiono affatto buone!), non ce l’abbiamo proprio fatta a coniugare potere e specificità femminile. Forse perché per riuscire ad “occupare” gioiosamente la società portandosi dietro la propria cultura di donne, avremmo dovuto farlo in tantissime, tutte insieme. Forse perché era necessaria in altre parole “un’occupazione di massa” da parte delle donne, un’occupazione degli spazi e dei luoghi della decisione e della responsabilità. Bisognava insomma “prendere il potere”, di fatto compiere una rivoluzione democratica ma decisa, che ribaltasse e modificasse a favore delle donne i rapporti di forza. Le donne non lo hanno voluto o saputo fare, in parte perché sempre convinte, sotto, sotto di valere almeno un po’ meno dei loro compagni, in parte perché, prese dai tempi della vita, non ne avevano il tempo. Esse hanno allora “patteggiato”, ovunque, in ogni situazione, adattandosi, modificando tempi e modi del loro essere, le loro priorità, a volte anche le loro emozioni o perlomeno la manifestazione delle stesse, spesso con sacrifici e menomazioni emotive importantissime e con pesanti riflessi sulle nuove generazioni (come ricordavo su area del 17 dicembre 2004). Le donne, così, hanno lasciato sul campo molto, certamente troppo della loro cultura, delle loro sensibilità condivise. Adesso pensare alle “donne” come ad un entità unica è diventato più difficile. Pensare poi alla “giornata delle donne” come occasione di riflessione sull’entità comune di “donne” è ancora più difficile. I problemi delle donne o meglio le difficoltà, le situazioni di povertà e di insicurezza che accomunano la vita di molte donne (che sono purtroppo maggioranza nella povertà, nell’assistenza, nella precarietà del lavoro, ecc.) sono ancor ben presenti e tutti da risolvere. Ma le speranze, i sogni, le ambizioni, i progetti comuni delle donne, la prospettiva di cambiare tempi e modi del lavoro e della vita, le loro utopie dove sono finiti?

Pubblicato il 

11.03.05

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