Il pericoloso lessico delle Ong

Dall'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso le pratiche di solidarietà, sostegno, aiuto, beneficenza sono diventate elementi connaturati ai sistemi economici occidentali, oltrepassando quel confine che un tempo le relegava a comportamenti etici di singoli individui.
Tale fenomeno si è consolidato con il declino di quello che impropriamente viene denominato "stato sociale". Assistiamo ormai a un capovolgimento di una prassi venuta consolidandosi dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del '900: se un tempo le risorse erano trasferite dai privati allo stato, oggi avviene esattamente l'inverso con massicci trasferimenti di denaro pubblico dallo stato ai privati (si pensi alle centinaia di milioni di sussidi pubblici alle casse malati o ai miliardi concessi alle banche per sanare i loro disastrosi bilanci).
Il tramonto del "welfare state" ha comportato il passaggio di numerose funzioni ad associazioni ed organizzazioni private, il cosiddetto "privato sociale" o "terzo settore", che fanno delle pratiche di solidarietà il cardine delle loro attività. La privatizzazione di numerose funzioni pubbliche e i drastici tagli alla spesa sociale hanno avuto come conseguenza la crescita del numero di persone espulse dalla vita civile relegate inesorabilmente ai margini della società e di cui qualcuno avrebbe dovuto prendersi cura.
I principali ambiti di intervento sono, all'interno dei singoli stati, la povertà, il disagio sociale, le tossicodipendenze, l'alcolismo, la terza età, la disoccupazione, l'integrazione degli stranieri; in tali ambiti le Ong svolgono ormai funzioni di supplenza o di sussidiarietà.
La lettura degli statuti o dei progetti delle varie Ong ci porta a incontrare continuamente parole come aiuto, sostegno, beneficenza, solidarietà, speranza. Parole nobili, intendiamoci, ma che rischiano di rimanere sostanzialmente vuote se le stesse Ong non si pongono l'obiettivo di contribuire a sconfiggere le cause che stanno alla base dei mali sociali di cui si occupano.
Nel libro Me-ti (Torino, Einaudi) Bertolt Brecht svolge alcune considerazioni sulla funzione dei medici in guerra, considerazioni che ben si adattano alle Ong e che valgono come perenne ammonimento. Un medico, "interrogato sullo scopo della guerra cui partecipava, diceva: come medico non posso giudicarla, come medico io vedo solo uomini mutilati (…) come filosofo potrei avere un'opinione in proposito(…), come soldato potrei rifiutarmi di obbedire o di uccidere il nemico, come contadino potrei trovare troppo bassa la mia mercede, ma come medico non posso far nulla di tutto questo, posso fare solo quello che tutti costoro non possono, e cioè guarire ferite. Purtuttavia si dice che una volta, in una certa occasione, Shin-fu (è il nome del medico in questione, ndr) abbia abbandonato questo punto di vista elevato e coerente. Durante la conquista da parte del nemico di una città in cui si trovava il suo ospedale, si dice che sia fuggito precipitosamente per non essere ucciso. Si dice che, travestito, come contadino sia riuscito a passare attraverso le linee nemiche, come aggredito abbia ucciso delle persone e come filosofo abbia risposto ad alcuni che gli rimproveravano il suo comportamento: come faccio a continuare a prestare la mia opera come medico, se vengo ucciso come uomo?"

Pubblicato il

17.12.2010 13:00
Angelo Ciampi