Libertà di stampa

Venerdì 4 maggio, sarà resa nota la sentenza che dirà se per la giustizia ticinese i quattro giornalisti imputati nella vertenza promossa dalla Clinica Sant’Anna sono colpevoli di diffamazione e uno di essi pure – rullino i tamburi – di concorrenza sleale. Una vicenda che solleva questioni centrali: il ruolo dei media, la libertà di stampa accanto all’ombra dei poteri forti. Ne abbiamo parlato con Aldo Sofia, voce competente del giornalismo locale.

«Siamo sempre pronti a difendere la libertà di stampa. Ma quando sono le nostre vicende a essere oggetto di attenzione, la libertà di stampa ci piace un po’ meno. È naturale. È umano. Ma continuiamo a difenderla la libertà di stampa. A denti stretti. Non per i giornalisti. Ma per noi. Non è la loro libertà. È la nostra. Difendiamo con forza l’informazione libera e pluralista. Difendiamo il nostro diritto di sapere. Senza il quale non esiste la libertà di pensare. E di agire per il proprio bene». Così, l’avvocato Luca Allidi, in un passaggio della sua arringa giovedì 26 aprile a difesa di quattro giornalisti del Caffè a processo. Il direttore Lillo Alaimo, l’ex vicedirettore Libero D’Agostino, l’ex caporedattore Stefano Pianca e la redattrice Patrizia Guenzi sono accusati di diffamazione, inoltre per il responsabile della testata è stato aggiunto (con quello che appare un controverso virtuosismo giuridico) pure il reato di concorrenza sleale. Un capo d’imputazione che ha fatto clamore e rumore. Un’accusa che Bruno Giussani aveva definito ad area scandalosa, in quanto «attacca essenzialmente il principio della libertà di rivelare le magagne di un’azienda privata quando questa non vuole che il pubblico ne venga a conoscenza. Dall’esterno a me sembra che un’accusa per concorrenza sleale in effetti miri a incoraggiare i giornalisti a lasciar perdere certe inchieste, a non pubblicare certe notizie, a non dar fastidio».


Già, perché se è vero che in aula oggi il giudice della Pretura penale Siro Quadri dovrà stabilire se c’è stata diffamazione e concorrenza sleale come sostiene la clinica attraverso il suo avvocato Edy Salmina, il processo sbatte in prima pagina la libertà di stampa, e quindi la democrazia, le regole del mestiere, con i suoi doveri e i suoi limiti e l’ingerenza di attori esterni.Viene da chiedersi, e lo chiediamo al direttore del Corso di giornalismo della Svizzera italiana, con quale situazione sono confrontati i media nel nostro cantone.


Aldo Sofia, è possibile fare giornalismo investigativo in Ticino?
Il giornalismo investigativo in Ticino esiste e ci sono giornalisti che lo dimostrano con abbondanza di casi. Ora, a prescindere da quello che ognuno pensa dell’inchiesta, che esista o non esista, non credo possa esserci futuro per la stampa, confrontata come la vediamo oggi nel mare dell’informazione in rete, se non si continuerà a coltivare questo genere di giornalismo. L’inchiesta – che ricordo è diversa dal giornalismo d’approfondimento, il quale raccoglie opinioni di vario orientamento – parte dal principio che c’è qualcosa da scoprire e non solo da sommare.  
Quanto la particolarità del territorio limita il lavoro per i giornalisti?
Il problema è che in un territorio così piccolo ci si conosce tutti, anche se poi non è proprio così. È vero però che in una situazione come quella del Ticino, dove la politica è molto presente nei media, può apparentemente sembrare più difficile. Da noi, a differenza di altre realtà, il giornalismo non viene favorito e il fatto di essere costantemente a contatto con la realtà politica può essere in alcuni casi un freno. Perché la pubblicazione di un’inchiesta giornalistica scatena reazioni di ogni genere e da tutti i poteri forti del territorio: la politica, l’economia, ma pure i sindacati e le varie comunità con un peso specifico. Reazioni che si fanno sentire in maniera più puntuale, quando le notizie sono urticanti. Nell’ultima inchiesta sul caso Argo, realizzata con la redazione di Falò, abbiamo cercato di spiegare le cose come stavano: non ci è stato rimproverato di avere riferito cose sbagliate, ma di avere voluto pubblicare qualcosa. L’inchiesta giornalistica viene spesso associata all’obiettivo di colpire.
Lo stesso teorema adottato contro i colleghi del Caffè...
Una reazione immediata che posso capire, ma poi se si trasforma nella difesa su tutta le linea, diventa fragile...


Qual è la sua opinione sull’inchiesta condotta dal Caffè?
Il giornale, al momento della denuncia da parte della clinica, mi aveva chiesto di esprimere la mia opinione. Non è che tutto quanto faccia il Caffè mi convince, anzi, delle volte può suscitare delle perplessità. Nel caso specifico sono andato a rivedermi gli articoli, che sembrano costituire un problema. La critica, in fondo, è “avete ripetuto sempre le stesse cose”. Da parte mia ho constatato che in larga misura si trattava di pagine aggiornate, i vari articoli portavano o elementi nuovi o diversi. È vero che si è messa in discussione la clinica in quanto procedure di sicurezza, ma nessuno può negare che all’interno della struttura ci siano stati dei problemi. Stiamo parlando di uno dei casi più gravi di sanità a livello nazionale: era inevitabile sollevare domande, anche se hanno potuto essere all’origine di qualche considerazione sbagliata. Dopodiché se dobbiamo invece dire che il Caffè ha reiterato alcune domande, insistendo su di esse non ricevendo risposta, in termini di diffamazione non vedo dove stia il problema: per diversi mesi il quotidiano la Repubblica riformulò le stesse domande a Berlusconi. Questo è un metodo giornalistico. La legge sulla concorrenza sleale, come ha avuto modo di spiegare il professor Bertil Cottier, è invece nata nell’indifferenza politica e anche degli stessi giornalisti ed è qualcosa al limite dell’accettabile. La concorrenza sleale, così come formulata, rischia di aprire le porte a qualunque situazione di controversia. Alla fine spetterà unicamente al lettore tirare le somme e concludere se il settimanale ha esagerato, se lo stile adottato gli piace e se abbia fatto bene o male il proprio lavoro.


Per il giornalismo d’inchiesta in Ticino, al di là dell’esito della sentenza, vede delle ripercussioni a causa di questo processo?
Oggi la sanità è diventata uno dei settori al quale la politica guarda con molto interesse. Basta guardare nei Consigli d’amministrazione, Sant’Anna compresa, per vedere che sono rappresentati tutti i partiti. La sanità è diventata un campo di confronto politico: è quindi necessario che il giornalismo se ne occupi. Detto questo, sì, e la prima ripercussione l’ho notata nello stesso Caffè. Da quando il giornale è stato messo nella condizione di difendersi, a me sembra che il settimanale abbia fatto un passo indietro. La denuncia è un classico metodo per scoraggiare e inquieta molto il giornalista e le testate per cui lavora. Le conseguenze non necessariamente le vede il pubblico. È nella mente dei giornalisti che avviene il condizionamento e anche se ci sarà una sentenza favorevole con assoluzione, è possibile che questa vicenda crei episodi di autocensura.

 

Concludiamo con le parole di Ruben Rossello, il presidente dell’Associazione ticinese di giornalismo (Atg) che, in risposta al direttore del Corriere del Ticino nel giugno del 2016, aveva scritto: «Questo genere di giornalismo, il giornalismo d’inchiesta, è un bene prezioso e fragile, addirittura da proteggere».

 

«Il cane abbaia per la democrazia»

 

Enrico Morresi è il decano del giornalismo ticinese di cui è diventato teorico e studioso. A lui dobbiamo la ricostruzione della storia della professione nella Svizzera italiana e le vicende a essa legate. Morresi non ha mancato l’appuntamento del 26 aprile 2018, quando in un’aula di tribunale si è iniziato a scrivere un’altra pagina del rapporto fra media, Stato e aziende private. È legittimo per un giornale accennare a ipotesi di reato?

«Premesso che è sempre difficile, e al limite irrispettoso, del procedimento in corso, esprimere opinioni e commenti, possiamo però cercare di definire quale sia, sempre a mio giudizio soggettivo, l’interrogativo che sta alla base del processo. Interrogativo che è questo: ritenuto che molte delle accuse di cattiva gestione mosse dagli articoli del Caffè alla Clinica sono nel frattempo cadute, bisogna sapere se al momento della pubblicazione il Caffè aveva elementi sufficienti per sollevare almeno le domande più brucianti. Se, detto altrimenti, aveva verificato accuratamente come stavano le cose. La motivazione a mio parere non mancava. La buona qualità del servizio sanitario è un bene pubblico di cui la stampa fa bene a occuparsi. Ecco il quesito al centro del dibattimento.


Ha superato il Caffè i limiti della necessaria prudenza, causando al limite anche un danno economico alla clinica?

Sullo sfondo naturalmente c’è il riconoscimento alla stampa della funzione di cane da guardia. Può accadere che il cane non abbai per niente, però se il cane non abbaia mai sarebbe molto peggio per la democrazia.


È questo il ragionamento che Enrico Morresi, da una vita nel mondo del giornalismo, farà al termine della giornata di dibattimento, che ha seguito, prendendo appunti, con partecipazione e attenzione in sala stampa assieme ai numerosi colleghi delle varie testate.


E sulla questione della diligenza che dire? È stato lecito pubblicare quegli articoli, dire quanto scritto?
«Per quello che in quel momento sapevano i giornalisti, a mio avviso, si poteva scrivere. Adesso sappiamo che molte accuse sono cadute, possiamo dire che quei sospetti erano eccessivi, ma lo possiamo dire solo adesso. Se hai una verosimiglianza, una parvenza che quello che stai cercando è la verità, tu pubblichi. Magari mi smentiranno in futuro? Vorrà dire che sarà pubblicata anche la smentita. Possiamo ragionare da professionisti sulla vicenda, ma dobbiamo stare attenti a non dare noi la sentenza al posto del giudice» conclude uno fra i rappresentanti storici della categoria in Ticino.


Enrico Morresi, classe 1936, ha attraversato e vissuto la stampa locale a partire dal 1958, quando ha iniziato la sua lunga carriera al Corriere del Ticino. Testimone e depositario di sessant’anni di vicende mediatiche si è trasformato in uno studioso del settore. Portano la sua firma i libri “Etica della notizia” (Casagrande, 2003), “L’onore della cronaca” (Casagrande, 2008), e i due volumi di “Giornalismo nella Svizzera italiana 1950-2000” (Dadò). Ha ricoperto cariche importanti all’interno della Federazione svizzera dei giornalisti, del direttorio della Federazione internazionale dei giornalisti, oltre a essere stato dal 1999 al 2011 presidente della Fondazione del Consiglio della Stampa.    

Pubblicato il 

03.05.18
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