Il paradosso della produttività

Si dice “lavoro” e si pensa subito “produttività”. E allora gli statistici ci spiegano: “La produttività del lavoro misura l’efficienza con cui si impiegano le risorse umane nel processo di produzione”.


Diciamo, per farla breve e per farla semplice: la produttività del lavoro è la quantità totale di beni o servizi che i lavoratori producono in un determinato periodo di tempo (ora, giorno ecc.). È uno dei concetti più utilizzati nell’analisi macroeconomica perché ha un’importanza  rilevante per la crescita e ha un legame molto stretto con la nozione di reddito o di ricchezza e con il livello di vita di un paese. Per questo si vuole alta la produttività del lavoro.


Si dice però spesso, tanto a livello cantonale quanto a livello federale, che la produttività non migliora, è stagnante, che è il punto debole dell’economia e dello sviluppo. In realtà ci si attende sempre di più, come condizione per la crescita, per il maggior profitto perché è dal lavoro che si ricava il plusvalore, per l’occupazione, per la competitività. E tutto assurge pure  a sistema: il produttivismo.


Si introduce allora una constatazione, rilevata come nuovo fenomeno: il paradosso della produttività. Ed è cosa seria, perché niente può essere politicamente realizzato (in senso largo, includendovi anche i movimenti sociali) senza concentrarsi su quel fenomeno. In quanto si  è via via imposta una posizione conservatrice. Essa (ed è qui il paradosso) consiste nell’attendere che gli effetti dell’“innovazione” si facciano finalmente avanti e si facciano quindi sentire sull’aumento della produttività. Tuttavia con un atteggiamento o una “politica” ritenuti sempre premessa obbligata: bisogna sostenere i profitti per favorire gli investimenti, sia drogandoli con sovvenzioni statali (e il reietto Stato torna comodo), sia sgravando sistematicamente e periodicamente le imposte a chi potrebbe investire, sia esercitando una pressione costante, moderatrice o limitatrice, sui salari e sui salariati, affinché non guastino (aumentando i costi per ora di lavoro, ad esempio) i guadagni di produttività e di profitto.


Questa visione è dominante nella sfera neoliberale. Si può però dire che è alquanto feticista poiché applica le stesse ricette da ormai oltre cinquant’anni (basterebbe scorrere la storia politica economica del Ticino).
È la logica del capitalismo, che in ultima analisi ricorda quella che Marx, nelle sue profetiche analisi, chiamava “pauperizzazione” delle masse (oggi si insisterebbe sulla pauperizzazione della cosiddetta classe media, critica che rende anche elettoralisticamente). L’assenza di guadagni di produttività induce il sistema a una pressione crescente sul lavoro o sullo sviluppo di un lavoro considerato “improduttivo” e, per riflesso, poco qualificato o gratificante per mortificarlo anche in termini di valore.


Se però il lavoro non scompare (come hanno predetto alcuni), ma diventa invece sempre più malmenato, ecco che prorompe allora quel fenomeno cui stiamo assistendo di questi tempi, già definito epocale, cominciato, non a caso, negli Stati Uniti e poi diffusosi in Europa, Australia, Canada, Regno Unito: il fenomeno  definito “Great Resignation” o delle grandi dimissioni di massa dal lavoro, alla ricerca, in pratica, non tanto di una migliore remunerazione, quanto di altra considerazione e di altre modalità di lavoro.
Ci si può chiedere allora, con un filo di ottimismo, se il lavoro, che si assume anche un rischio, non stia  riprendendosi quel ruolo che gli dovrebbe essere centrale nel superamento del capitalismo.

Pubblicato il

27.04.2023 09:09
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