Il 24 giugno prossimo si svolgeranno in Albania le elezioni per il rinnovo del Parlamento di Tirana. Non sono stati anni qualsiasi quelli che hanno preceduto quest’ultima prova elettorale. Le ultime "regolari" elezioni poltiche albanesi si tennero infatti nel maggio del 1996, ma dieci mesi dopo scoppiò la rivolta popolare contro l’imbroglio delle "piramidi finanziarie" e il regime dell’ex presidente Sali Berisha, fino ad allora grande alleato dell’Occidente. Così il 29 giugno del 1997 si tennero nuovamente elezioni straordinarie, d’emergenza, su pressione internazionale, appena dopo una rivolta che, si scoprirà subito dopo, non solo aveva acceso momenti di guerra civile interna con l’assalto ai depositi di armi dell’esercito e della polizia e la devastazione delle poche e fragili istituzioni, ma stava reinnescato in tutta l’area balcanica la mai sopita questione albanese. Questione che, sottesa e in questo momento sottaciuta nelle aspettative albanesi dell’opinione pubblica e dei partiti di Tirana, è comunque fortemente presente dentro la tornata elettorale. Presente, quasi come uno scenario sempre in bilico sul precipizio a cui l’Albania resta inesorabilmente appesa e condannata, ma non decisiva in questo momento per le sorti interne del paese. Certo c’è stato un momento in cui l’Albania è stata il santuario delle milizie dell’Uck, dopo la rivolta contro le "piramidi finanziarie" e dopo il settembre del 1998, quando Sali Berisha tentò un colpo di mano violento quanto fallimentare contro le istituzioni di Tirana — in piazza con lui armato fino ai denti scese allora anche l’ex re Leka da sempre in esilio in Sudafrica. Berisha per quel tentativo di golpe e prima per la repressione delle manifestazioni popolari del marzo ’97 si avvalse di manipoli di miliziani, molti dei quali venivano dall’emigrazione politica dal Kosovo e dalla Macedonia. Da quella sconfitta quelle milizie (chiamate "centuria" o guardia nera di Berisha) si stabilirono con i loro quartier generali nel nord del paese, alla frontiera con la piccola Jugoslavia di Milosevic, in un’area a nord di Scutari retroterra elettorale del clan Berisha e del suo Partito democratico e zona da tempo nelle mani delle mafie locali: una specie di terra di nessuno in mano a organizzazioni criminali. Quando si estese, nel 1998, l’offensiva militare dell’Uck (Ushtrimde chlirimtare kombetar, Esercito di liberazione nazionale) quella regione ne diventò il retroterra militare, condiviso anche da altre forze di guerriglieri che si costituivano, come le Farc. Se l’Uck per formazione lontana e sedicente marxista-leninista — ma in realtà nazionalista — cercava legami con tutti ma in primo luogo con il Partito socialista di Fatos Nano, le Farc, dichiaratamente nazionaliste, facevano esplicito riferimento a Berisha. Tra loro avvenne a Tirana una resa dei conti con l’eliminazione fisica da parte dell’Uck del comandante in capo delle Farc, Ahmed Krasniqi. Poi, con la scelta di Richard Holbrooke di far diventare l’Uck l’interlocutore privilegiato degli Stati uniti in funzione anti-Milosevic — siamo agli inizi del 1999 e Washington si avvia a mettere la parola fine alla missione dell’Osce in Kosovo — le milizie albanesi saranno finanziate, addestrate e organizzate nel nord dell’Albania dai servizi occidentali e dall’Alleanza atlantica. Comincia l’avventura esplosiva della questione albanese che metterà in secondo piano la questione interna e politica rappresentata dai nodi irrisolti dell’Albania. Che irrisolti resteranno — come nella vicina Macedonia — nonostante le promesse lasciate e i tanti aiuti portati dall’Occidente in funzione dei profughi di quella guerra e del conflitto stesso, presentato come guerra umanitaria. Strano umanitarismo che dimentica le distruzioni, i nuovi profughi che ha provocato (240.000 serbi, rom e goranci espulsi con la forza dal Kosovo), le uccisioni provocate tra civili in Jugoslavia con 78 giorni di bombardamenti aerei della Nato, e soprattutto il fatto che non ha risolto, ma aggravato l’instabilità dell’area, con la nuova guerra nel sud della Serbia e alle porte di Skopje. A sentire Fatos Lubonda, scrittore, ex dissidente del regime di Enver Hoxha — è stato 17 anni in carcere — e ora principale, se non unico, intellettuale di sinistra di Tirana, stavolta però queste elezioni non hanno al centro la questione albanese, sia perché l’opinione pubblica, sempre sensibile al nazionalismo, tende ad allontanare problemi che risultano irrisolti e nei quali non si riconosce, come la situazione in Macedonia; sia perché oppressa dalla pesante situazione sociale del paese fortemente polarizzato in una realtà di pochi, pochissimi ricchi da una parte e della maggioranza degli albanesi praticamente in miseria dall’altra, nonostante dieci anni di promesse dell’Occidente. Insomma, ci dice lo scrittore emergente Bashkim Shehu molto conosciuto in Francia e Spagna, "se la gente si riconosceva nella giustezza della lotta del popolo albanese del Kosovo perché lo considerava sotto il tallone di Milosevic, non riesce a comprendere le ragioni delle milizie dell’Uck che attaccano in armi la Macedonia", un paese con mille difetti ma dove la multietnicità è di fatto garantita con la partecipazione dei partiti albanesi da sempre nel governo, l’insegnamento dell’albanese nelle scuole la presenza di albanesi nella polizia e nell’esercito (anche nello stato maggiore). Un approfondimento dei diritti della forte minoranza albanese di Macedonia è auspicato, ma perché la lotta armata? Forte è la consapevolezza a Tirana che l’Europa e gli Stati Uniti mostrano di accorgersi strumentalmente dell’Albania solo per quella che ritengono sia la sua vera, peculiare risorsa, vale a dire la sua instabilità. Va da sé che se aumenteranno gli attegiamenti xenofobi occidentali, con le ripetute campagne contro i lavoratori immigrati, gli albanesi d’Albania saranno sempre più ricacciati indietro nell’isolamento e quindi nel nazionalismo più acceso. Le elezioni a Tirana dovranno così rispondere più a nodi irrisolti interni che al destino della — "Grande Albania" — voluta in un primo tempo dall’Uck (Albania, più Kosovo, più parte della Macedonia, più parte del Montenegro, più la Valle di Presevo nel sud-della Serbia e un pezzetto di Grecia); soprattutto perché i leaders dell’Uck il suo capo storico resta Hasim Thaqi formalmente a capo di un partito legale sconfitto nelle amministrative in Kosovo dalla Lega democratica di Ibrahim Rugova mostrano ormai di muoversi più verso una integrazione in un — Grande Kosovo — (Kosovo indipendente, ma ora la Nato dice no, Valle di Presevo e nord della Macedonia) e poi affrontare i problemi di quella che hanno sprezzantemente scoperto essere la "poverissima e arretrata madre patria Albania". Per questo i partiti elettorali si sono presentati in campagna elettorale più "occidentali" che mai. Il Partito socialista di Fatos Nano, che vanta di presentarsi con 100 candidati indipendenti, promette nella sua "Piattaforma di governo" per gli anni 2001-2005 "per eliminare la povertà e la disoccupazione" di porre sotto controllo l’inflazione, fissandola al 2-4%, mentre il prodotto interno lordo aumenterà di un 7-8% annuo, una politica fiscale con tassazioni ridotte per l’imprenditoria, la firma dell’accordo di associazione alla Comunità europea, la definizione di uno statuto legale della proprietà e dei piccoli e grandi capitali. Il Partito democratico (con un Sali Berisha insolitamente meno arrogante, anche perché fin qui salvato dai socialisti da tutti i processi per "strage contro il popolo" e "tentato golpe" che la magistratura giustamente voleva aprire nei suoi confronti), promette con la coalizione elettorale con cui si presenta "l’Unione per la vittoria", sempre per eliminare la povertà, un vasto programma di totale privatizzazione di tutto con i cosiddetti "buoni di privatizzazione", energia, gasolio, miniere, telecomunicazioni, banche, per "eliminare la disoccupazione". Un po’ scimmiottando Bush e molto Berlusconi. Difficile fare previsioni fondate su chi vincerà, non c’è nel paese un istituto di sondaggi vero e proprio. È certa una nuova affermazione dei socialisti. Anche se c’è un nuovo elemento che potrebbe giocare a vantaggio, se non di un ritorno al potere, di una crescita di credibilità di Sali Berisha: la vittoria elettorale in Italia della destra della "Casa delle Libertà". L’Italia da sempre è la sponda occidentale più prossima alla politica albanese. Berlusconi e il post-fascista Fini andarono in soccorso di Berisha nei giorni della rivolta popolare del 1997. Eppure Berisha, in chiave nazionalista, ha sempre tuonato contro Fatos Nano troppo "succube" dell’Italia, soprattuto dopo la strage della Kater I Rades, la nave di immigrati fatta colare a picco dalla Marina militare italiana il 27 aprile del 1997 (morirono cento persone). Come fa ora a schierarsi ora con i suoi amici e commilitoni della destra italiana, che arriva al potere con figure come il leghista Bossi e il post-fascista Fini che hanno da sempre aizzato campagne contro l’immigrazione albanese e che annunciano la revisione radicale degli aiuti a Tirana?
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