"Il padre di tutti i processi"

Bruno Pesce aspetta con impazienza la data del 6 aprile. Quel giorno, a Torino, di fronte al Giudice per le udienze preliminari si aprirà il processo penale a carico dello svizzero Stephan Schmidheiny e del belga Jean Louis Marie Ghislain de Cartier. Pesce è il coordinatore dell'Associazione familiari vittime dell'amianto di Casale Monferrato. Da 30 anni lotta per veder riconosciuti i diritti di chi si è ammalato o è morto a seguito dell'esposizione all'amianto.

Bruno Pesce, cosa si aspetta dal processo Eternit che si apre il 6 aprile a Torino con l'udienza preliminare?
Dall'udienza preliminare ci aspettiamo che il giudice accolga per intero la richiesta di rinvio a giudizio. Perché se così non fosse vorrebbe dire che non è possibile perseguire nessuno per stragi sul lavoro e disastri ambientali. Dal processo ci attendiamo che emerga la verità. E se emerge la verità siamo sicuri che otterremo giustizia. Ma sarà dura: siamo un piccolo Davide contro due grossi Golia.
Per voi questo è il padre di tutti i processi?
Sì, a questo processo è rivolta da associazioni di vittime e sindacati di molte parti d'Europa una particolare attenzione. Il nostro collegio legale sarà una vera e propria multinazionale, con avvocati che rappresentano associazioni di vittime di Francia, Svizzera, Belgio, Olanda, Germania. Davanti al Palazzo di giustizia nella mattinata del 6 aprile creeremo un evento collaterale con tutti coloro che, non essendo parti civili, non potranno accedere fisicamente all'aula. Arriveranno pullman da Casale, Reggio Emilia, Cavagnolo, Napoli e dalla Francia e delegazioni da altri paesi.
Quanti sono finora i morti da esposizione all'amianto a Casale Monferrato?
Circa 1'500, su una popolazione ci poco più di 35 mila abitanti. 1'300 compaiono nella richiesta di rinvio a giudizio di Guariniello. Non c'è casalese che non abbia almeno un parente, un amico intimo, un compagno di scuola o un collega di lavoro nella lista dei morti. E ci sono decine di famiglie che sono state colpite ripetutamente. La presidente della nostra Associazione Romana Blasotti Pavesi, ha avuto quattro morti in famiglia: il marito, la sorella, la nipote, una figlia. Ma ci sono molti casi di persone che hanno perso entrambi i genitori. C'è addirittura chi ha perso i suoi cinque fratelli.
E si continua a morire…
Solo di mesotelioma abbiamo 45 nuove diagnosi all'anno. Appena 6-7 anni fa si era ancora a circa 25 casi nuovi all'anno. A questi vanno aggiunti i casi di asbestosi e i carcinomi polmonari. Ora speriamo che si sia raggiunto il picco massimo e che i casi nuovi comincino a diminuire.
Sono cifre impressionanti…
Sono quasi inverosimili. Se fossero 100 farebbero più impressione. La gente rimane perplessa quando gli parlo di 2 mila 889 vittime a causa dei soli stabilimenti Eternit in Italia che compaiono nelle liste di Guariniello. Sembra un dato irreale. Ma a leggerle una per una non si finisce più.
Cosa l'ha spinta nel '79 a diventare un punto di riferimento della lotta contro l'amianto?
Nel '79 ero segretario della Camera del lavoro comprensoriale. E rimasi stupito da due fattori concomitanti. Uno: il forte aumento delle malattie professionali. All'epoca al mio stupore si rispondeva dicendo che le malattie professionali erano normali, e si stentava ad ammettere che si moriva, anche se molti già morivano di asbestosi o di tumore ai polmoni. L'altro motivo fu il fallimento del progetto di ammodernare la Eternit di Casale. Allora capìi che i casalesi sarebbero finiti cornuti e mazziati: perché avrebbero perso il lavoro e in più si sarebbero ritrovati ammalati. E infatti dall'83 Eternit cominciò a ridurre nettamente i posti di lavoro, fino all'istanza di autofallimento dell'86. Uno stabilimento nuovo avrebbe almeno permesso di diversificare la produzione e rilanciare l'occupazione.
Era un'epoca in cui non si era coscienti della pericolosità dell'amianto.
All'epoca solo nei Paesi nordici il pericolo amianto era un tema di dibattito pubblico, che aveva portato all'emanazione delle prime limitazioni. Ancora alla fine degli anni '80 le industrie italiane dei materiali d'attrito come Ferodo e Galfer avevano due linee di produzione: una per l'Italia, la Francia, l'Inghilterra e altri Paesi in cui si usava l'amianto, un'altra con prodotti privi di amianto per l'esportazione nei Paesi nordici.
Da subito lei fu protagonista di un'importante battaglia legale contro Eternit.
Nell'81 con il patronato avviammo una serie di cause di riconoscimento di malattie professionali. Ne vincemmo quasi 400. Fu il più grosso contenzioso medico-legale dell'epoca. Ci permise di far saltare la teoria dell'Eternit secondo cui ormai l'amianto lo si poteva lavorare in totale sicurezza. Con questa teoria Eternit aveva ottenuto di non più dover pagare un premio supplementare all'Inail, l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Non incassando più il contributo specifico per il rischio amianto, l'Inail bloccò alcune prestazioni che riguardavano oltre 120 dipendenti. Tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione confermarono la permanenza del rischio amianto in tutti i reparti. La prima sentenza fu dell'83. E contribuì a convincere Eternit a chiudere lo stabilimento di Casale. Quella battaglia diede il via alle lotte per la fuoriuscita dall'amianto, lotte che videro unite le tre sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil e che portarono ad una delle leggi più avanzate dell'epoca.
Una seconda, importante battaglia giudiziaria fu il processo penale del '93.
Sì, esso riguardò solo i responsabili della società Eternit Casale Spa, tutti italiani. L'inchiesta fu conclusa già nell'85, ma dovemmo lottare 8 anni per giungere al processo. In primo grado i responsabili della società furono condannati a pene fra i 6 mesi e i tre anni di carcere. In secondo grado e in Cassazione furono però riconosciute diverse attenuanti generiche, cosa che ridusse le pene e prescrisse quasi tutti i reati.
Ma voi continuaste a fare esposti in procura.
I nostri obiettivi erano due. Da un lato considerare il ruolo della multinazionale, ignorato nel processo del '93. Dall'altro tener conto anche delle vittime ambientali, cioè considerare fra le parti lese anche i cittadini di Casale, non solo chi lavorò alla Eternit. Non se ne fece nulla fino al 2004, quando si diedero le condizioni per la competenza della Procura di Torino.
Quindi era necessario capitare su un procuratore come Guariniello per arrivare al processo penale a Schmidheiny e a Ghislain de Cartier?
Sì. Ma c'è voluto anche un cambiamento nella cultura dominante. Fino a non molti anni fa si considerava normale che lavorando ci si potesse infortunare o ammalare e anche morire. In fin dei conti, si pensava, sono operai, e se morivano c'era poco da fare. Chi nel mondo del lavoro si opponeva a questa logica era considerato un sovversivo.
Cosa ne pensa delle offerte di indennizzo alle parti lese avanzate da Schmidheiny a condizione che non si costituiscano parte civile al processo? Egli propone 60 mila euro per ogni operaio morto e 30 mila euro per ogni vittima ambientale, e indennizzi minori in funzione del grado di invalidità e degli anni passati a Eternit per chi è ancora vivo.
L'offerta di Schmidheiny verrà accettata da una parte forse anche notevole delle parti lese a causa della prescrizione. Molti temono che il processo possa andare per le lunghe e che la loro posizione cada in prescrizione. I lavoratori in assemblea hanno espresso un giudizio negativo, per due ragioni: per il metodo e perché l'offerta è insufficiente. C'era stata in passato una trattativa su proposta degli avvocati di Schmidheiny, conclusasi poco più di due anni fa con una nulla di fatto. Avevano messo sul tavolo 75 milioni di euro, che a noi sembrava una buona base di partenza per una discussione su un eventuale risarcimento complessivo. Ma ad un certo punto fu posta una condizione: avremmo dovuto garantire che in Italia non ci sarebbero più state né indagini né denunce nei riguardi di Schmidheiny e delle sue società. Era una proposta provocatoria, fatta apposta per farci dire di no. Ma qual era il loro interesse nel far saltare la trattativa?
Lei ha mai incontrato personalmente Schmidheiny?
No. È così lontano e ha una catena di comando così lunga che non posso immaginare realmente chi sia. Di certo è un personaggio che avrebbe dovuto affrontare le sue responsabilità proponendo un risarcimento equo ben prima che partisse l'inchiesta e che avesse sotto gli occhi l'entità del disastro. Non averlo fatto è a mio parere una colpa grave.


La morte sul lavoro, forma di umiliazione
Intervista a Raffaele Guariniello, il pubblico ministero al processo Eternit

Coordinatore del pool sugli infortuni sul lavoro alla Procura di Torino, Raffaele Guariniello è uno dei procuratori più famosi d'Italia. Una fama che gli deriva da inchieste molto discusse come quelle sul rogo mortale alla Thyssen Krupp, sul doping nello sport, sulle misteriose malattie che colpiscono i calciatori professionisti e sulla Eternit. Fra una riunione e l'altra ha trovato il tempo per un'intervista. Ad una condizione: che non si parlasse specificamente del processo Eternit. Perché adesso la parola è dei giudici.

Procuratore Raffaele Guariniello, per lei il caso Eternit è un processo fra tanti o ha un significato particolare?
È uno dei tanti processi che abbiamo fatto e faremo nel campo dei tumori professionali. Ma mai avevamo avuto un numero di persone lese così importante. Uno dei problemi posti da questo processo è di tipo prettamente logistico: se venissero tutti sarebbero guai. Speriamo che tutto si possa svolgere tranquillamente.
Lei nel campo della sicurezza e della salute sul lavoro è ormai uno specialista…
… per forza di cose! È dagli anni '70 che ci lavoro, ho anch'io i miei anni…
Però la sicurezza sul lavoro è un tema che altre procure non affrontano con la vostra assiduità.
Un'organizzazione come quella che abbiamo a Torino non la si trova altrove. È il frutto di tanti anni di lavoro su questa materia e della collaborazione di tanti magistrati. Nel mio gruppo lavorano dieci magistrati che si occupano in particolare di temi quali la sicurezza sul lavoro, la tutela dei consumatori ecc… Godiamo inoltre dell'appoggio della polizia giudiziaria, dell'Osservatorio sui tumori professionali e di numerosi esperti esterni. Processi in materia di sicurezza sul lavoro e specifici di tumori d'amianto ne abbiamo fatti moltissimi. La nostra organizzazione ha ormai una grossa esperienza. Questo ci consente di far fronte ad indagini anche grosse. Ma proprio perché siamo una vera e propria organizzazione. Per questo da tempo sostengo che se si vuole affrontare bene il problema della sicurezza sul lavoro bisogna creare una procura nazionale.
Cosa l'ha spinta personalmente ad affrontare questi temi?
È una scelta che feci quando cominciai a lavorare in Magistratura. Mi aveva sempre interessato e colpito l'umiliazione dell'uomo da parte dell'uomo. L'insicurezza del lavoro è una di queste forme di umiliazione.
Lei è famoso anche per le inchieste sul doping nello sport. Lo considera anche questo un problema di salute sul lavoro?
Sì. Abbiamo cominciato a lavorare sul doping proprio perché siamo partiti dall'idea che anche lì si dovesse tutelare la salute. Ma tutelare la salute di un'élite sportiva come quella del calcio vuol dire anche tutelare la grande massa di persone che praticano qualche attività sportiva e che spesso vedono nell'élite un modello da imitare. È un investimento sulla salute di tutti. Senza farne dei processi esemplari, che non amo. Io amo i processi giusti.
La somma di questi processi porta negli anni anche a rafforzare la protezione dell'ambiente, oltre che la salute sul lavoro.
È giustissimo, perché c'è una stretta connessione fra i due ambiti. Il caso dell'amianto è paradigmatico, e ci dà anche una linea per il futuro. Spesso abbiamo a che fare con fattori di rischio i cui effetti complessivi ci sono ancora in gran parte sconosciuti. Un esempio tipico è quello dei campi elettromagnetici: ne va della tutela di chi ci lavora, ma anche se non soprattutto delle popolazioni che vivono vicino ad antenne, elettrodotti ecc…
Però se alla tutela della salute dei lavoratori e alla protezione dell'ambiente ci si arriva attraverso il diritto penale e le indagini del giudice Guariniello vuol dire che il resto del sistema giuridico offre poche garanzie.
In effetti la giustizia penale dovrebbe essere l'ultima spiaggia. Che si pensi così spesso al magistrato penale come ad una salvaguardia reale significa che la pubblica amministrazione non sempre riesce ad essere efficace. Spesso c'è un grande vuoto lasciato dall'amministrazione, vuoto che con un'attività di supplenza deve colmare l'autorità giudiziaria. Io credo che uno Stato di diritto che funziona bene è uno Stato in cui c'è una pubblica amministrazione efficiente e autonoma dagli interessi che operano nei diversi campi. Costruire un'amministrazione di questo tipo è oggi un grande problema per l'Italia.
C'è stato un cambiamento di mentalità nel mondo industriale italiano attraverso la somma dei processi da lei istruiti in materia di salute sul lavoro?
Tutti gli interventi giudiziari efficaci servono ad estirpare l'idea che ci sono delle leggi che si possono impunemente violare. Purtroppo bisogna che questo capiti dappertutto. E ancora non ci siamo.
A che punto è la parte dell'inchiesta sulle vittime italiane degli stabilimenti svizzeri di Eternit?
Purtroppo non abbiamo potuto far proseguire quella parte assieme al troncone principale, che giunge in aula per il rinvio a giudizio il 6 aprile, perché abbiamo dovuto aspettare l'esito di alcune rogatorie in Svizzera che hanno avuto dei tempi notevoli. Non so dirle quando potremo chiedere il rinvio a giudizio, né perché ci siano voluti tutti quegli anni. Purtroppo il crimine oggi viaggia con internet, mentre l'autorità giudiziaria viaggia ancora con la diligenza.


Pubblicato il

27.03.2009 01:00
Gianfranco Helbling