Il pacifismo di emergency

Giulio Cristoffanini pacifista lo è diventato per esperienza, non per partito preso. Lui, Gino Strada e i loro colleghi di Emergency la scelta della non violenza l’hanno maturata per averne vissuto sulla loro pelle l’esatto contrario: «Siamo contro la guerra perché abbiamo visto cos’è la guerra», dice. Cofondatore e membro del Consiglio direttivo di Emergency (che proprio in questi giorni compie 10 anni di vita), Giulio Cristoffanini è stato nelle scorse settimane al Liceo di Lugano 1 nell’ambito delle giornate su “Guerra, pace e pacifismi”. Agli studenti ha raccontato gli orrori delle guerre “preventive” di oggi che mietono vittime quasi solo fra i civili: «C’è chi considera le vittime degli “effetti collaterali”, ma come si fa a chiamarle così?». Gli “effetti collaterali” sono persone – donne, bambini, uomini – «con un volto, una storia, e non dati statistici». Responsabili e operatori di Emergency molte di loro (come ad esempio, Kuestani, 12 anni, rimasto cieco e senza le due mani dopo aver raccolto una bomba “a grappolo”) le hanno incontrate in Iraq, prima e durante una guerra d’invasione dalla quale ora «è difficile vedere come si possa venir fuori». «Riteniamo che le forze d’occupazione debbano venir via, passare il controllo alle organizzazioni internazionali. È impensabile che chi ha creato l’inestricabile casino che è l’Iraq di oggi possa ricostruirlo», ha detto a Lugano Cristoffanini. area lo ha incontrato per parlare di Iraq, di Emergency, ma anche di terrorismo e di guerra, che sono un po’ la stessa cosa, perché, come dice, «la guerra ha una valenza simile al terrorismo». Giulio Cristoffanini, qui a Lugano è venuto a parlare agli studenti di “storie di pace dagli ospedali di Emergency”. In che modo l’azione della vostra organizzazione promuove la pace nei paesi martoriati dalla guerra? Io credo che in questi paesi la nostra sia una delle poche attività di pace. Basti pensare agli afghani, che vengono da 25 anni quasi ininterrotti di guerra. Eppure quando riesci a coinvolgerli in un progetto che abbia un senso, che dia loro una prospettiva, ti rendi conto che sono assolutamente recuperabili. Nella nostra esperienza ci sono innumerevoli esempi di questo tipo. Quali sono le difficoltà che incontrate oggi in Iraq? Il problema principale è che in Iraq oggi noi di Emergency siamo sempre più visti semplicemente come degli occidentali e non come “quelli che fanno qualcosa per la gente”. Non era mai successo – nemmeno in Afghanistan – che i nostri operatori si sentissero così insicuri. Per la prima volta nella nostra storia usiamo giubbotti anti-proiettile. E stiamo discutendo di non più utilizzare in alcune zone i nostri veicoli, facilmente riconoscibili, bensì i più anonimi taxi, come del resto fanno molte altre organizzazioni non governative. Emergency da anni è presente nel Kurdistan iracheno. In che condizioni state lavorando? I due partiti principali (l’Unione patriottica del Kurdistan-Upk di Jalal Talabani e il Partito democratico del Kurdistan-Pdk di Massoud Barzani, ndr) sono di fatto alleati delle forze di occupazione e pertanto obiettivo di attentati. A Erbil negli scorsi mesi ci sono stati due violentissimi attentati contro le sedi dei due partiti curdi. I feriti sono stati ricoverati anche nei nostri centri e i responsabili dei partiti hanno mandato delle scorte armate per proteggerli e a difesa delle strutture. Questa situazione per noi ha immediatamente comportato dei rischi. Cominciavamo a vedere strane facce, veicoli insoliti, che si aggiravano nelle vicinanze. Ai loro occhi era come se avessimo dichiarato la nostra appartenenza al partito degli occupanti. Siamo stati subito costretti a chiedere ai due partiti di ritirare i combattenti posti a difesa dei centri. In altre zone dell’Iraq la situazione è migliore? Non direi. A Kerbala (città a un centinaio di chilometri a sud-ovest di Baghdad, ndr) sta succedendo qualcosa di catastrofico. La situazione è grave al punto che il consorzio che ha firmato per noi il contratto per la costruzione di un ospedale ci ha comunicato nelle scorse settimane che è disposto a pagare tutte le penali previste ma che non consegnerà la struttura. Le maestranze rifiutano di lavorare. Ritengono che lavorare per una Ong occidentale – qualsiasi essa sia, noi compresi, e questa è una situazione del tutto inedita per Emergency – significhi essere dei collaborazionisti e pertanto diventare possibili bersagli di attentati. I lavori ora sono sospesi e non troviamo nessuno che li voglia portare avanti. Non avete mai avuto l’impressione di essere manipolati dalle forze in conflitto, in Iraq o altrove? Dei tentativi ci sono stati. All’inizio della nostra esperienza in Kurdistan, ad esempio, il Pdk pretendeva che noi fossimo la loro organizzazione sanitaria. Ma in questo Gino Strada è sempre stato molto attento e successivamente non abbiamo avuto problemi. In Afghanistan, per fare un altro esempio, siamo partiti con la costruzione di un ospedale nel Panshir (zona controllata dall’Alleanza del Nord dell’ex leader Massoud, ostile al regime dei Talebani, ndr). Massoud era diventato un nostro sostenitore e prima di morire assassinato ci aveva definiti “amici degli afghani” riconoscendo il fatto che noi restavamo lì con loro sotto le bombe, e riconoscendo anche la necessità di offrire ai Talebani un progetto corrispondente. Non si trattava di una manipolazione, questo riconoscimento ci ha creato sia delle difficoltà sia dei vantaggi. Da un lato, ad esempio, mentre partiva il progetto in Panshir, abbiamo subito offerto ai Talebani la possibilità di costruire un altro ospedale a Kabul, ma siamo stati visti con grande sospetto. Dall’altro nel 2002, durante una breve missione in diverse regioni dell’Afghanistan – fra cui le aree pashtun (dalle quali proveniva buona parte dei leaders dei Talebani, ndr) –, ci siamo resi conto che si era diffusa dappertutto la leggenda di Emergency amica del popolo afghano. Così abbiamo potuto visitare delle comunità in piena area pashtun alle quali altre organizzazioni non avevano accesso. Avevate acquisito un’autorevolezza morale che ad altre Ong faceva difetto… Sì, un’autorevolezza morale che deriva dal fatto che la gente – e non solo in Afghanistan – vede il lavoro che facciamo: in questi paesi non è usuale vedere ospedali belli, puliti, e perdipiù gratuiti come quelli di Emergency. In Cambogia, in Afghanistan, in Sierra Leone la regola è che gli ospedali – anche quelli costruiti o finanziati da grandi Ong – sono sporchi, inospitali e quasi mai gratuiti. Emergency è stata criticata per questa “inutile” bellezza dei nostri centri. Io credo invece che la bellezza sia una parte importante e irrinunciabile del progetto di Emergency. Non va dimenticato che “ospedale” significa ospitale e che l’ospitalità ha pure una funzione terapeutica. Lei ha detto agli studenti che la guerra è la stessa cosa del terrorismo. Cosa intende? Noi di Emergency riteniamo che guerra e terrorismo abbiano una valenza simile, perché stiamo vedendo cos’è oggi la guerra: stragi di civili – di gente che non c’entra nulla con il conflitto – e imposizione di un terrore con il quale si cerca di piegare il nemico. Le mine anti-uomo, ad esempio, sono uno strumento terroristico, non diretto ai militari ma alla popolazione civile. Tutti i manuali di strategia militare riservano uno spazio all’uso di strumenti terroristici nella guerra moderna. Forse d’ora in poi non sarà più politicamente corretto impiegare queste parole, ma intanto si continua a usare strumenti di guerra che colpiscono nel mucchio, alla faccia delle bombe “intelligenti” e delle guerre “umanitarie” che sono degli obbrobri, delle bestemmie, dal punto di vista etico. ***** Ne ha fatta di strada Emergency da quando il genocidio ruandese la tenne a battesimo 10 anni fa. Il 15 maggio del 1994 era solo «un gruppetto di cinque scriteriati» che partì per il paese africano con «del materiale rubacchiato qua e là negli ospedali di Milano e dell’hinterland milanese», ha ricordato a Lugano Giulio Cristoffanini, uno dei fondatori. «La missione – racconta Cristoffanini – durò un paio di mesi e i due chirurghi al seguito effettuavano fino a 70 interventi al giorno». Emergency era nata un mese prima a Milano. Gino Strada e gli altri fondatori si proponevano di fornire assistenza medico-chirurgica alle vittime delle guerre e, soprattutto, delle mine antiuomo, costruendo e gestendo ospedali nelle zone maggiormente colpite. La riabilitazione di una clinica abbandonata a Kigali è stato il primo passo di un’azione umanitaria che negli anni successivi ha portato Emergency in Cecenia, nel Kurdistan iracheno, in Afghanistan, in Cambogia, in Sierra Leone, in Eritrea e, dal 2002, a Jenin (Cisgiordania) e in Algeria. L’organizzazione ha costruito e gestisce ospedali per i feriti di guerra e per le emergenze chirurgiche, centri di riabilitazione per le vittime di mine antiuomo, posti di primo soccorso e ambulatori. Dall’intervento chirurgico d’urgenza, le sue attività si sono man mano estese alla chirurgia ortopedica e ad altri settori di intervento, come testimoniano fra l’altro la trasformazione da centro chirurgico a ospedale generale della struttura costruita nel Panshir afghano, l’apertura di unità speciali per ustionati nei centri chirurgici di Sulaimaniya ed Erbil (Kurdistan iracheno), oppure ancora la costruzione in Sierra Leone di un centro sanitario pediatrico per far fronte al flagello della malaria. Emergency, ha detto Giulio Cristoffanini agli studenti del Liceo 1 di Lugano, nasce con «la fissazione» di Gino Strada per la riduzione all’osso delle spese amministrative che «in molte grosse Ong inghiottono oltre il 50 per cento delle risorse». L’organizzazione nel frattempo è cresciuta anche in Italia, dove conta su migliaia di volontari riuniti in quasi 200 gruppi locali. Nel 2003 è stato necessario potenziare la sede di Milano. Eppure, nonostante la crescita, Emergency riesce ancor oggi a destinare solo il 5,4 per cento dei fondi alle spese amministrative. Un caso se non unico assai raro, che per di più si produce senza far ricorso ad aiuti governativi: «Vogliamo evitare qualsiasi tipo di condizionamento nelle nostre attività e render conto di ciò che facciamo solo ai nostri donatori», precisa Cristoffanini. In occasione del suo decimo compleanno, Emergency organizza un ciclo di eventi di informazione e comunicazione per raccontare dieci anni del suo lavoro in favore delle vittime delle guerre. L’iniziativa si inaugurerà lunedì 26 aprile e durerà quattro settimane durante le quali, sul binario 21 e nell’adiacente Sala Reale della stazione centrale di Milano, si alterneranno immagini e testimonianze da quattro paesi dove Emergency è presente con i suoi centri chirurgici e di riabilitazione. Per maggiori informazioni sulla mostra e su Emergency in generale, vedasi: www.emergency.it; Gino Strada, Pappagalli verdi, Feltrinelli, 1999; Gino Strada, Buskashì, Feltrinelli, 2000.

Pubblicato il

30.04.2004 03:30
Stefano Guerra