Il nuovo Impero. Intervista con Toni Negri

L'ha letto anche Francesco Cossiga, ex presidente della Repubblica ed ex ministro dell'interno del '77 e degli anni più aspri della contestazione italiana: che, certo senza condividerne tutte le ipotesi teorico-politiche, ne parla in termini lusinghieri. Pubblicato oltre oceano da un autorevole editore, diventato un caso editoriale negli Stati Uniti e in Francia (vendite fuori dal comune per un impegnativo saggio di teoria politica, recensioni di tutto rispetto su New York Times e Le Monde), Impero si avvia a diventarlo anche in Italia: uscito nella seconda metà di gennaio, quindicimila copie di prima tiratura, è già alla terza ristampa. C'è qualcosa di paradossale nel fatto che, per via dei rapporti a livello internazionale tra case editrici, finisca per essere un editore di best seller e libri di largo consumo come Rizzoli, con una vocazione non proprio spiccatamente di sinistra, a pubblicare in Italia Impero, scritto a quattro mani da Michael Hardt, quarantenne docente universitario americano - e fin qui nulla di particolare - e da Antonio Negri, sessantotto anni, negli anni settanta, oltre che docente all'università di Padova, leader di Autonomia Operaia, nel '79 arrestato con l'accusa di insurrezione armata contro lo stato. Condannato in primo grado a trent'anni di detenzione, poi ridotti quasi ad un terzo, eletto nell'83 in parlamento nelle liste del Partito Radicale, Negri uscì di conseguenza di prigione, e quando la camera votò l'abolizione dell'immunità parlamentare riparò in Francia. Nel '97 è tornato in Italia, e dopo un periodo a Rebibbia, sta finendo di scontare la pena godendo del regime di semi-libertà. Negri ci riceve nella sua casa romana, a Trastevere. Una delle tesi fondamentali di Impero è che il declino dello «stato-nazione» è in fase avanzata. Stato-nazione che però il libro non rimpiange... Tutt'altro. Bisogna insistere sul fatto che la globalizzazione è stata imposta dalle lotte, dalle classi operaie, è stata invocata dai popoli del terzo mondo, è stata desiderata dal proletariato dei paesi ex socialisti, è stata richiesta come superamento dell'asfissiante potere degli stati-nazione. L'internazionalismo operaio si è trasformato in qualcosa di estremamente sano, nell'aspirazione a vivere gli uni con gli altri, a meticciarsi, in un mondo libero, nel quale ci si può muovere senza vincoli. Per via della generazione a cui appartengo, a casa mia ho avuto molti morti in guerra: mio padre, mio nonno, due zii, mio fratello. Dunque per me il senso della pace non è una passione astratta, ma è legato al mio dna: porto con me un odio fortissimo per gli stati-nazione, per il sentimento della patria, che sono legati alla negazione dell'altro, al razzismo, ai massacri, alle trincee di Verdun e del Piave. Una manifestazione concreta del superamento degli stati-nazione? Uno dei fenomeni più impressionanti, e di cui quasi nessuno parla, di questi ultimi trent'anni, è l'affermarsi di regole totalmente private, di una «lex mercatoria»: una rete di accordi commerciali, privati, di scambio, proprietari, monetari, che passano senza toccare le legislazioni nazionali. Ci sono grandi studi di diritto, piazzati alle Bahamas piuttosto che a New York o a Ginevra, che addirittura determinano rapporti tra stati e privati. Praticamente quasi tutta la legislazione che riguarda le fonti di energia, dal petrolio in su, non tocca gli stati, anche quando riguarda soggetti pubblici legati quindi agli stati, come sono ancora in buona parte delle agenzie per il petrolio, per l'elettricità, eccetera. La globalizzazione non è semplicemente l'allargamento geografico della potenza del capitale: se si trattasse di questo, la globalizzazione ci sarebbe da sempre. Quello che qualifica la globalizzazione sono le strutture a cui dà origine, perché il capitale, come qualsiasi regime economico, non può vivere senza forme statali, istituzionali, giuridiche, senza regole: prima di tutto perché le liti fra i capitalisti sono grandi, e poi perché sono tremendamente grandi i conflitti con gli sfruttati. All'interno di questo comando mondiale, agli stati-nazione è tolta la possibilità di agire indipendentemente. Come si è costituita questa sovranità globale, imperiale? Si ha la netta impressione che i grandi organismi multinazionali abbiano funzionato da demiurghi, da forze che inizialmente hanno costruito questo tipo di comando. Il governo statunitense ha giocato un ruolo centrale in questo processo, che si è sviluppato attraverso le alleanze, i grandi piani economici , che costituiscono il livello più alto, più politico, e poi attraverso le composizioni e ricomposizioni del mercato, che sono state accelerate in maniera spropositata col passaggio al post-fordismo, cioè al decentramento della produzione fuori dalle grandi fabbriche, e con l'informatizzazione dei processi produttivi. Nello stesso tempo però il libro spiega che l'impero è una sorta di meccanismo di comando del capitale a cui contribuiscono diversi soggetti di varia natura (stati-nazione, organismi internazionali, eccetera) senza che ci sia un soggetto che prevalga in maniera assoluta: quindi gli Stati Uniti stanno in cima ma solo come uno dei soggetti decisivi? In effetti non è vero che gli Stati Uniti oggi possano decidere da soli: gli Stati Uniti oggi decidono ma hanno bisogno della grande alleanza, e appena questa alleanza si forma tutto comincia immediatamente a sfilacciarsi. Malgrado l'enorme potenza militare di cui dispone, le grandi operazioni di guerra di Bush non riescono a realizzarsi. L'11 settembre comunica il senso profondo della precarietà della situazione americana, e ha cominciato a dare agli americani la coscienza della fine della loro insularità. L'isolazionismo americano era già difficilmente applicabile, adesso non è più nemmeno pensabile. Una grande contraddizione dell'impero è quella fra una connessione profondissima di interessi e una gestione privata di questi interessi, che determina livelli di sfruttamento, di squilibrio, di scambio ineguale terribili: mentre oggi le soluzioni possibili appaiono sempre più chiaramente delle soluzioni «comuni», se non si vuole dire comuniste. Insomma, l'impero è alla ricerca di una regola, e non sa come darsela: molto, naturalmente, dipenderà dalle lotte, dall'opposizione che incontrerà. Come vede lo sviluppo della resistenza all'impero? Oggi come oggi non sono così pessimista. Anche il tono del libro, la sua pacatezza, risente dell'impressione di essere maggioranza, di non essere più la minoranza che urla e si agita. Fino al '68 e oltre, fino agli anni settanta, c'è stato un grande montare di lotte, e queste lotte hanno veramente trasformato l'uomo, hanno prodotto una modificazione antropologica. Poi c'è stata la reazione, proprio una reazione classica che potremmo descrivere secondo modelli storici. Come la reazione dopo la caduta di Napoleone, quando è finita l'onda lunga della rivoluzione francese: si passa ad una fase di restaurazione brutale, borbonica, la fase Tatcher-Reagan, poi c'è una fase alla Luigi Filippo, nella quale c'è l'arricchimento attraverso le privatizzazioni, la creazione di piccoli satrapi, fase in cui si inserisce questa età berlusconiana. Ma poi questa fase si esaurisce subito, perché immediatamente dopo c'è il 1848, e lì le cose ricominciano a farsi serie: la classe operaia è diventata maggioranza e la lotta di classe riprende ad un livello più alto. Come oggi? Sì, oggi comincia la lotta dei poveri, delle moltitudini, e dopo la fase di crisi controrivoluzionaria è questo che è nell'aria, si sente che comincia a mancare il consenso per il capitale collettivo. Credo che il nuovo movimento sia un movimento globale e anticapitalista. Certamente all'interno ci sono aspetti legati alla parzialità. Ma a parte il fatto che credo davvero che si possa essere contro il capitale collettivo e a favore del proprio formaggio come Bové, il movimento è importante perché è riuscito ad invertire il ciclo, a rimettere in moto un ciclo di lotte. Questo dopo una serie di lotte - Tien An Men, i paesi socialisti, la Corea del Sud, la Francia, il Chiapas - ognuna delle quali già si rendeva conto che si doveva battere con un potere più alto di quello dei proconsoli nazionali, ma erano lotte che non si riusciva a mettere insieme le une con le altre. E invece, mentre sembrava che fossimo sconfitti, appena il movimento è ripartito neppure l'11 settembre è riuscito a ributtarlo indietro. Qualcuno si stupirà, nelle ultime pagine, dedicate a delineare una nuova figura di «militante», di trovare un rinvio a San Francesco... Penso che la fine del concetto di «classe operaia» riproponga il tema della produttività generale, della produzione a livello dell'umanità come tale, a livello del "biopolitico", cioè della vita. Il marxismo è stato una teoria profondamente legata ad una fase dello sviluppo capitalistico, quello dalla manifattura alla grande industria. Il nostro andare con Marx oltre Marx è ritrovare questa idea della produttività generale del lavoro vivo: ecco dunque il paradosso del povero, che a questo punto diventa la potenzialità massima di vita, di espressione di potere biopolitico. È per questo che San Francesco mi piace da morire. Certo sento molto questo tema anche per via delle mie origini: la mia era una famiglia di poveracci, operai e contadini. D'altra parte Francesco affascinava straordinariamente anche Machiavelli, che ne faceva il modello di come poteva rinascere la repubblica: come San Francesco aveva fatto per la chiesa, cioè il ritorno alle origini, era così che poteva rinascere anche una qualsiasi altra repubblica, soprattutto la repubblica romana, cioè della religione civica, della religione del materialismo. E poi San Francesco è importante perché noi dobbiamo trasformare la nostra ragione in qualcosa di "sensuoso": non ci bastano una protesta e una lotta che siano semplicemente razionali, abbiamo bisogno di una lotta che sia fino in fondo razionale ma anche affettiva, buona, gioiosa. Michael Hardt, Antonio Negri, Impero (Rizzoli, 450 pp. circa, 20 euro)

Pubblicato il

08.03.2002 05:00
Marcello Lorrai
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