di Orazio Martinetti

Rottura, trauma, svolta, in ogni caso un avvenimento epocale, che rimase impresso nell'immaginario collettivo per decenni, convitato di pietra di ogni conflitto lavorativo: ci riferiamo allo sciopero generale del 1918, fatto che ancora oggi troneggia quasi come un unicum nella storia elvetica, accanto allo sciopero delle donne del 1991 e alla recentissima mobilitazione alle Officine di Bellinzona.
Su quei fatti di novant'anni fa, la storiografia ha fatto luce solo nel secondo dopoguerra, soprattutto per merito di Gautschi, Schmid-Ammann, Mattmüller e Vuilleumier (v. articolo sotto). Prima c'era chi (da destra) lo demonizzava come tentativo rivoluzionario ispirato dai bolscevichi, e chi (da sinistra) lo esaltava come fase culminante di un lungo periodo di agitazione operaia e sindacale, preludio di una rivoluzione politica.
Archiviato il Novecento, con tutti i suoi drammi e le sue aspre contrapposizioni, è ora possibile riesaminare quegli anni tempestosi con occhi più sereni e distaccati. Ne vediamo meglio anche la complessità: un intreccio in cui confluiscono diversi fili, di varia lunghezza e spessore: locali, nazionali, internazionali.
Lo sciopero esplode all'indomani dell'armistizio tra le potenze dell'Intesa e gli imperi centrali sconfitti (trattato di Compiègne, 11 novembre 1918). Rimasta neutrale per tutta la durata della grande guerra, la Svizzera assiste alla conclusione delle ostilità prostrata e intimamente ferita. Le difficoltà nell'approvvigionamento di generi alimentari e di materie prime avevano provocato un'impennata dei prezzi; la partenza per la frontiera dei capifamiglia aveva fatto ricadere sulle spalle delle donne il peso delle economie domestiche. Erano inoltre apparsi fenomeni ripugnanti come l'incetta di latte e patate, il mercato nero, i traffici illeciti, la speculazione. Molti, i cosiddetti "pescecani", s'erano arricchiti a danno dei ceti subalterni, già decimati dall'epidemia influenzale, la micidiale "grippe spagnola".
Ma la crisi s'era estesa anche alle relazioni interne. Nei primi anni di belligeranza, l'invasione del neutrale Belgio aveva scavato un solco profondo tra la Svizzera tedesca (in buona parte pro-germanica) e la Romandia (prevalentemente filo-francese): un fossato (Graben, fossé) che minacciava di smembrare il corpo elvetico.
Durante la guerra alcuni scandali avevano inoltre intaccato la fiducia nelle gerarchie militari: due colonnelli, Friedrich Moritz von Wattenwyl e Karl Egli, avevano trasmesso informazioni riservate allo stato maggiore tedesco. Ma lo stesso comandante in capo dell'esercito, il generale Ulrich Wille, non nascondeva le sue simpatie per la Germania del Kaiser. Ai vertici dell'esercito gli atteggiamenti anti-operai e anti-sindacali erano all'ordine del giorno. S'era inoltre creata, consapevolmente alimentata dalle politiche governative, una netta contrapposizione tra operai e contadini, tra la città e la campagna: la prima era considerata, nella pubblicistica conservatrice, un nido di sovversivi; la seconda rappresentava invece la culla delle autentiche virtù patriottiche.
Sul fronte antagonistico, il movimento operaio organizzato scontava il fallimento della seconda Internazionale, incapace di impedire il conflitto, fatto che aveva gettato nello sconforto i militanti e dato la stura ad una girandola di accuse e contro-accuse (traditori, rinnegati). L'ala radicale, rappresentata da Lenin e Rosa Luxemburg, rivolse ai compagni che avevano votato i crediti di guerra nei rispettivi paesi parole di fuoco. Alcuni di loro s'erano già staccati dalla socialdemocrazia tedesca, fino al disastro del 1914 considerata il partito-faro del movimento operaio europeo. Lenin aveva dato vita al partito bolscevico, mentre Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht intensificarono le campagne antimilitariste, finendo più volte in carcere. Nel frattempo i maggiori esponenti dell'ala intransigente s'erano riuniti nei villaggi bernesi di Zimmerwald (1915)  e Kiental (1916) allo scopo di elaborare una strategia che trasformasse la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria: teoria particolarmente cara alla delegazione bolscevica capeggiata da Lenin. A quei raduni parteciparono anche sette svizzeri, tra cui Robert Grimm, Ernst Nobs e Fritz Platten.
Questo dunque il quadro alla vigilia dello sciopero. In estrema sintesi: aumento delle disuguglianze tra le classi sociali, impoverimento delle famiglie proletarie, lentezza nell'approvvigionamento di generi di prima necessità, pandemia influenzale, diffusione di fenomeni prima marginali come l'accapparramento, scollamenti interni. Tutto questo generò un incremento della conflittualità sociale (829 agitazioni tra il 1917 e il 1920) e la saldatura, in unico blocco politico-sociale, delle élites borghesi con le cerchie conservatrici rurali  e le gerarchie militari: un blocco terrorizzato dagli esiti della rivoluzione d'Ottobre e perciò deciso a stroncare con la forza ogni iniziativa socialista o sindacale.
Lo sciopero generale (o nazionale), proclamato il 12 novembre del 1918 dal Comitato d'azione di Olten (operativo dal mese febbraio), fu seguito in modo disuguale nel paese e si concluse, dopo tre giorni, con una sconfitta. Temendo un bagno di sangue, i promotori, con alla testa Robert Grimm, Friedrich Schneider e Fritz Platten, decisero di interrompere l'agitazione senza porre condizioni il 14 novembre. Tali timori non erano infondati: a Grenchen (Soletta) tre scioperanti erano stati uccisi dalla truppa. Da ricordare che il governo centrale, appellandosi ai pieni poteri, aveva posto il personale federale, e quindi anche i ferrovieri, sotto la legge marziale.
Molto si è discusso sulla rilevanza di questo sciopero, sui motivi che l'avevano provocato, sullo svolgimento e sulle conseguenze. Va comunque ricordato che l'agitazione del novembre non fu l'unica in quella stagione costellata di conflitti sociali. Altre azioni, svoltesi nelle città di Basilea, Zurigo e Ginevra, e lo stesso sciopero di Lugano del luglio del 1918, ebbero un'eco maggiore sul piano regionale.
Parecchio si è anche disquisito sulla natura della sciopero generale, se fosse un tentativo insurrezionale o una forma di protesta dovuta all'esasperazione sociale (v. riquadrato a fianco sulle rivendicazioni del Comitato di Olten). La prima interpretazione è stata fino a ieri dominante nella pubblicistica ufficiale e anche, per motivi opposti, in certe frange dell'estrema sinistra: in sostanza si sarebbe trattato di un colpo di stato orchestrato da Mosca. Tesi che gli storici seri hanno dimostrato insostenibile: «Si è sempre parlato, in occasione dello sciopero generale, di modelli bolscevichi: ora è incontestabile che questi modelli abbiano esercitato, in talune cerchie, un'influenza ideologica; ma non si assistette ad una replica della tattica bolscevica del colpo di stato, non furono attuati tentativi per occupare centrali di comunicazione e stazioni ferroviarie, nulla fu fatto per paralizzare l'informazione pubblica e per controllare il governo. Un vero colpo di stato di stampo russo avrebbe dovuto svolgersi ben diversamente» (Mattmüller).
Non insurrezione di "bolsceviki" dunque, ma un catalogo di rivendicazioni che la Confederazione avrebbe dovuto far suo per finalmente imboccare la via della modernità sociale: previdenza e assicurazioni, miglior distribuzione della ricchezza, riduzione dell'orario lavorativo, suffragio femminile.
Così non fu, le riforme rimasero congelate a lungo, alcune per decenni. I principali esponenti dello sciopero finirono per alcuni mesi in galera; i più combattivi vissero la sconfitta come un'"occasione mancata". I vincitori invece cementarono la loro unità interna, raggruppandosi in squadre paramilitari (guardie civiche) e nella Federazione patriottica svizzera (1919-1948), associazione che poi, negli anni '30, darà man forte al frontismo filo-fascista.
Le lotte, tuttavia, non cessarono. Nel 1919 le principali città d'oltralpe furono teatro di altri scioperi generali; altri operai caddero sotto i colpi dell'esercito, come nel mese di agosto a Basilea: 5 vittime.

Scampato pericolo. Fino al '68

«Quando nel 1918 le potenze centrali soccombono e la rivoluzione scoppia nella Germania e nell'Austria, il cosiddetto comitato d'azione di Olten proclama lo sciopero generale (11 novembre). Di fronte alla fermezza e alla decisione del Consiglio federale, che mobilita una parte delle truppe, e dell'Assemblea federale, che ratifica le misure prese, il tentativo di sconvolgere l'ordine politico e sociale, fallisce completamente».
Interpretazioni come questa (qui abbiamo ripreso quella proposta da Luigi Donini e P. Gaspare Fässler, Storia della Svizzera e del Ticino, 1960) ebbero largo corso nell'insegnamento e nei testi scolastici fino allo spirare degli anni '60. La svolta si ha nel 1968, nell'atmosfera euforica della contestazione studentesca. In quell'anno escono tre studi storico-analitici che fanno piazza pulita di luoghi comuni e pregiudizi ideologici. Il primo è opera di Willi Gautschi, storico argoviese: Der Landesstreik 1918 (terza edizione, Chronos, 1988); il secondo è di Paul Schmid-Ammann, pubblicista, che su incarico dell'Unione sindacale svizzera presenta "la verità sullo sciopero generale: cause, svolgimento, conseguenze" (Die Wahrheit über den Generalstreik von 1918. Seine Ursachen, Sein Verlauf, Seine Folgen, edizioni Morgarten); il terzo considera lo sciopero attraverso la vita del teologo protestante Leonhard Ragaz, esponente del socialismo religioso, una delle personalità più originali del primo Novecento (Markus Mattmüller, Leonhard Ragaz und der religiöse Sozialismus. Eine Biographie, Band II, Evz-Verlag, Zurigo).
Erano tre volumi di notevole mole, fondati su documenti d'archivio prima inaccessibili, e che finalmente gettavano una luce diversa su quella che, fino a quel momento, era stata considerata l'esperienza più traumatica della Svizzera moderna dopo la guerra civile del Sonderbund. Tutti e tre gli autori allargavano lo sguardo alla situazione politica, socio-economica e culturale di quegli anni: le tensioni interetniche, le pressioni esterne, il comportamento delle classi dirigenti civili e militari, la radicalizzazione della lotta politica, le influenze ideologiche eccetera.
Nel 1977 esce la prima ricostruzione complessiva in lingua francese, un volume a più voci coordinato da Marc Vuilleumier: La Grève générale de 1918 en Suisse, edizioni Grounauer. Il volume illustrava per la prima volta i riflessi e le dinamiche della mobilitazione sul piano regionale romando: Vaud, catena giurassiana, Ginevra (ampio il capitolo redatto da Mauro Cerutti). L'agitazione s'era infatti svolta a macchia di leopardo, con epicentro nelle città della Svizzera tedesca, la fascia più industrializzata. L'eco in periferia era stato invece molto flebile (in Ticino solo gli scalpellini, i metallurgici di Bodio e i ferrovieri risposero all'appello).
La storiografia più "magra" è quella in lingua italiana: sono state condotte indagini d'ampio respiro – per esempio da Sandra Rossi sul Ticino durante la prima guerra mondiale e da Gabriele Rossi sul movimento sindacale – ma uno studio specifico ancora manca. Unica eccezione: un saggio divulgativo scritto da Dario Robbiani nel 1962 per i sessant'anni della Camera del Lavoro: 1918: il resto seguirà (Ente cantonale operaio di cultura, Lugano).

L'appello del Comitato di Olten

«In un momento in cui i princìpi di democrazia e di libertà trionfano in altre nazioni, in un momento storico nel quale gli stati monarchici vacillano e le corone cadono nella polvere, in un momento in cui il popolo europeo si risveglia da una notte di orrore e di terrore e vuole prendere in mano esso stesso il suo destino, il Consiglio federale della "più antica democrazia dell'Europa" si prodiga nello strangolare quel po' di libertà che ancora esiste nel paese, nel proclamare lo stato d'assedio e nel dominare il popolo con le baionette e le mitragliatrici […].
Noi chiediamo la riforma immediata del governo attuale del paese, conformemente alla volontà del popolo. Noi domandiamo che il nuovo governo s'impegni a realizzare il seguente programma minimo:
• rinnovo immediato del Consiglio nazionale secondo il sistema proporzionale;
• diritto di voto e di eleggibilità delle donne;
• introduzione della settimana lavorativa di 48 ore in tutte le imprese pubbliche e private;
• organizzazione di un esercito essenzialmente popolare;
• garanzia di approvvigionamento alimentare in accordo con gli agricoltori;
• assicurazione vecchiaia e invalidità;
• annullamento del debito pubblico da parte dei possidenti».


Pubblicato il 

07.11.08

Edizione cartacea

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