L'intervista
Le donne migranti e la rivoluzione
degli asili nido
Francesca Falk, storica esperta di migrazioni, lo sa bene: è anche grazie alle lavoratrici migranti, alle loro lotte, se in Svizzera c’è ora una buona rete di strutture di custodia per l’infanzia.
Francesca Falk, le donne migranti erano un passo in avanti rispetto alla Svizzera?
L’emigrazione italiana ha esercitato un’influenza molto forte sulla Svizzera negli anni del secondo dopoguerra. L’Italia ha introdotto prima della Svizzera alcuni diritti sociali e politici a favore delle donne: l’assicurazione di maternità, il principio di uguaglianza tra i sessi e il suffragio femminile. Ci sono state differenze anche in termini di diritto matrimoniale. In questo Paese, fino al 1976 le donne avevano bisogno del permesso del marito per lavorare. Negli anni Sessanta, in Svizzera entrambi i genitori delle famiglie migranti lavoravano perché un unico reddito non era sufficiente per tutta la famiglia. Questo non accadeva tra la classe media svizzera. In termini di uguaglianza, la Svizzera era arretrata in molti settori e lo è ancora per certi aspetti.
Cosa c’entra tutto questo con l’assistenza all’infanzia?
A causa del loro lavoro e della mancanza di reti familiari, le coppie immigrate avevano maggiormente bisogno di posti negli asili nido. Per soddisfare la domanda di manodopera straniera da parte dell’economia svizzera durante il boom economico la rete di asili nido è stata ampliata, con la Missione Cattolica, ad esempio, che ha creato le proprie strutture. Anche le aziende, come la fabbrica di calze Rohner a Balgach, si occupavano dei figli dei loro operai. Soprattutto le classi lavoratrici dovevano affidare i propri figli a un asilo nido, spesso associato allo stigma della povertà.
Perché in passato l’assistenza all’infanzia esterna alla famiglia provocava così tanta diffidenza tra il popolo svizzero?
Le ragioni erano molteplici. Una di queste era la guerra fredda: con la contrapposizione tra Est e Ovest gli asili nido assunsero una connotazione comunista. All’epoca la Svizzera era molto anticomunista e questo ha contribuito alla percezione negativa degli asili nido. Inoltre, l’assistenza all’infanzia esterna era anche screditata scientificamente. Il noto psichiatra infantile statunitense John Bowlby sostenne, intorno al 1944, che la rottura del legame madre-bambino era la causa principale della delinquenza giovanile. Secondo lui, un neonato può formare un legame emotivo solo con una persona, che per lui era la madre. Per questo motivo Bowlby era contrario al fatto che le madri lavorassero. Questa visione scientifica rafforzava la convinzione che l’occupazione femminile fosse incompatibile con il ruolo di madre. L’idea dell’asilo nido come opportunità per tutti gli strati sociali è arrivata tardi in Svizzera.
Quando?
Nel dopoguerra, l’idea prevalente in Svizzera era che una famiglia dovesse essere sostenuta economicamente dal padre e la madre rimanesse a casa. Le famiglie fino al ceto medio potevano permetterselo. Tuttavia, la situazione iniziò a cambiare verso la fine degli anni Sessanta. Sulla scia del movimento del 1968, emerse il cosiddetto nuovo movimento femminista, che si batteva per una diversa divisione dei ruoli tra i sessi. D’altra parte, le due crisi del prezzo del petrolio degli anni Settanta hanno lasciato il segno anche sull’economia svizzera. Di conseguenza, molti immigrati dovettero lasciare la Svizzera perché licenziati. Di conseguenza, si sono liberati posti negli asili nido, aprendo l’offert a alle famiglie svizzere della classe media. L’immagine di queste istituzioni per l’infanzia è cambiata ed è diventata accettabile per le classi medie e alte.