Il nodo basco

Le elezioni di domenica 13 maggio nei Paesi Baschi spagnoli rivestono un’importanza che va molto oltre i 2 milioni e 100 abitanti baschi e i 7 mila 200 chilometri quadrati delle tre province storiche di Euskal Herria, Vizcaya, Guipuzcoa e Alava. Domenica la posta in palio non è solo il futuro di Euskadi ma, un qualche misura dell’intera Spagna. Perché Euskadi vuole dire, ancora oggi, Eta, ossia lotta armata e terrorismo da parte del nazionalismo radicale; spinta politica all’indipendenza dall’ "occupante" spagnolo da parte del nazionalismo moderato; rapporti di Madrid, il tradizionale potere centrale, con un paese come la Spagna post-franchista ,di larga autonomia ma non ancora federale. L’Eta, Euskadi Ta Askatasuna —Terra Basca e Libertà, sorta come resistenza al fascismo franchista, ha subìto dopo la morte di Francisco Franco nel ’75, la transizione morbida e lo statuto autonomico di Guernica del ’78, una deriva in senso sempre più militarista e terrorista. La tregua del settembre ’98, proclamata dopo la controversa firma del Patto di Lizzarra (fra Pnv e Ea, i nazionalisti moderati; Eh, i nazionalisti radicali, e l’ala basca di Izquierda Unida) che faceva appello per una soluzione negoziata della crisi basca, non è sfociata in una "via irlandese": al contrario dell’Ira, l’Eta non solo non ha dato l’addio alle armi ma nel dicembre ’99 ha annunciato la fine delle tragua e a partire dal dicembre 2000 ha ricominciato con una litania di attentati — nei Paesi Baschi ma anche nel resto della Spagna — che hanno fatto finora trenta morti e ucciso anche ogni concreta possibilità di negoziato. Il Paese Basco e le sue elezioni di domenica sono diventate così una vera cartina di tornasole per il governo destrorso del premier José Maria Aznar, per l’opposizione social-liberale del Psoe più che mai orfano e dipendente da Felipe Gonzalez, per il nazionalismo cattolico-conservatore-moderato del Pnv (Partido Nacionalista Vasco) al potere dalle prime elezioni autonomiche dell’80 ma questa volta seriamente minacciato; per il nazionalismo abertzale, ossia radicale, di Euskal Herritarrok, il baccio politico dell’Eta, succeduto a Herri Batasuna che il giudice Baltasar Garzon aveva messo nel mirino della giustizia. La coalizione nazionalista moderati-radicali (Pnv, più la sua costola Eusko Alkartasuna, più Eh), guidata dal lehendakari (governatore) Juan José Ibarretxe, peneuvista, non ha potuto reggere alla pressione della sanguinosa offensiva dell’Eta da una parte e dall’altra della sfida del tutto-per-tutto che il governo governo Aznar ha deciso di giocare sullo scacchiere basco. In un clima sempre più teso e deteriorato, con rischi concreti di "rottura sociale" fra nacionalistas e espanolistas in Euskadi e una inarrestabile violenza urbana giovanile-politica, chiamata kale borroka in lingua euskera, si è arrivati così, nel febbraio scorso alle elezioni anticipate del 13 maggio. Da un lato Ibarretxe e il Pnv, il cui programma elettorale si spinge ormai apertamente alla richiesta di un referendum "per l’autodeterminazione", dall’altro una coalizione apparentemente innaturale fra la destra del Partido Popular di Aznar e la sinistra del Psoe di José Luis Rodriguez Zapatero, il leader incaricato di cancellare l’ombra ingombrante di Felipe e far ripartire i socialisti. L’alleanza per un futuro governo Pp-Psoe in Euskadi, sotto la guida dell’ex ministro degli interni di Aznar, Jaime Mayor Orej — un duro bollato dai radicali come "il candidato poliziotto" — è giustificata con "il fascismo alle porte" dell’Eta e con l’inattendibilità del Pnv. Il vero problema del voto basco sarà il dopo. Specialmente se vincerà la coalizione costituzionalista Pp-Psoe che spingerà non solo l’Eta a una deriva ancor più terrorista ma anche il Pnv a una radicalizzazione nazionalista. Anche se la "via irlandese" si è finora dimostrata impraticabile (d’altronde la situazione è diversissima fra il Paese Basco e l’Ulster), è evidente a tutti (tranne forse a coloro che devono convivere con il temibile terrorismo etarra e il kale borroka con cui i giovani baschi incappucciati seminano la paura nelle strade di San Sebastian e di Bilbao) che né il problema basco né il problema Eta possono essere risolti con una soluzione militare. La deriva terrorista dell’Eta e il fatto di definirla "una banda terrorista" non rende più facile le cose a quanti promettono — o hanno tentato — la sua "disarticolazione" con la repressione legale o con la guerra sporca. Anzi la brutta storia dei Gal, i gruppi armati con cui i servizi liquidarono molti esponenti dell’Eta e del suo entourage, fu una delle ragioni che portarono alla caduta, dopo quattro legislature filate, del carismatico Felipe Gonzalez e alla vittoria, nel marzo ’96, di Aznar e del suo partito-miscela di nuova destra liberale e di vecchia destra franchista. Aznar ha giocato pesantissimo la carta del nazionalismo indipendentista basco e del terrorismo etarra, in questo assecondato dall’Eta. A ogni morto ammazzato dall’organizzazione armata basca sono cresciute le possibilità di strappare al nazionalismo moderato-conservatore il timone di Euskadi e di costringere i socialisti, all’opposizione alle Cortes di Madrid, a diventare alleati "contro il terrorismo" nel Paese Basco. Il risultato di domenica in Euskadi può rivelarsi uno choc nel tormenato rapporto fra gli spagnoli e i baschi, ma libererà onde più lunghe che possono arrivare lontano. Certo si ripercuoterà nella vicina Catalogna, l’altra nazionalità storica e recalcitrante anche se più propensa a trattare con Madrid a suon di richieste economico-finanziarie piuttosto che a suon di bombe e attentati. E si rifletterà anche sui Paesi Baschi "del Nord", quelli in territorio francese, tradizionale ma sempre più difficile santuario dell’Eta. Ma l’onda lunga basca arriverà anche in una "Europa delle regioni" in cui si trovano ormai molte situazioni analoghe a quella dei Paesi baschi, anche se non così radicali e incancrenite (basterà ricordare la Lega Nord di Umberto Bossi in Italia, dove si voterà lo stesso giorno). In Spagna il voto basco cade in un momento in cui Aznar, a un anno dalla sua seconda vittoria elettorale nazionale, è uscito dallo stato di grazia dei quattro anni del suo primo governo e dal primo anno del suo secondo governo. Allora le cose gli erano andate bene. L’economia spagnola — grazie alle misure liberiste prese dai successivi governi socialisti e ai fondi strutturali europei — cresceva a un ritmo del 4% l’anno, più veloce della media europea, il gap storico fra i due paesi della penisola iberica nell ’86, al momento della loro entrata nella Ue, si è andato riducendo, anche se resta ancora da colmare. Anche la disoccupazione, che era la più alta d’Europa è andata diminuendo e ora è intorno al 13%, anche se la riforma delle leggi sul lavoro ha significato la rottura della concertazione governo-padronato (Ceoe)-sindacati da un lato e dall’altro dopo 13 anni di politica unitaria la rottura, appena mascherata ma profonda, fra le Comisiones Obreras comuniste e l’Ugt socialista. Se la Spagna ha migliorato il record negativo della disoccupazione, ha ancora quelli sulla precarietà del lavoro (il 31% almeno dei contratti sono a tempo) e sugli incidenti sul lavoro (il doppio delle media europea). I buoni risultati dell’economia spagnola — pagati però da un’inflazione intorno al 4% l’anno scorso, — sono dovuti principalmente all’aggressiva Operazione Reconquista dell’America Latina in svendita del suo patrimonio industriale e ambientale che ha fatto esplodere i loro profitti, nel solo ultimo anno fra il 26 e il 38%. I problemi economici rimandano immediatamente ad altri problemi sociali: quelli dell’immigrazione, legale e clandestina, che fa della Spagna per la sua storia e collocazione geografica o il naturale punto d’arrivo dei latino-americani ovvero la porta d’entrata dei maghrebini e sub-sahariani. Il governo Aznar ha emanato il 23 gennaio scorso una sua nuova Ley de Extranjerìa, che è una versione modificata di un testo precedente adottato nella precedente legislatura quando non aveva ancora la maggioranza assoluta alle Cortes. Modificata e peggiorata, in materia di permessi, di clandestinità, di modalità e tempi di espulsione. In Spagna ci sono un milione di stranieri, si calcola, di cui 800 mila legali, su 40 milioni di abitanti. Per i 200 mila illegali, che sono forse anche di più, si annunciano tempi duri. Anche se contro una Ley de Extranjerìa che non dispiacerebbe agli Haider in Austria e ai Bossi e Fini in Italia si è levata la voce della Chiesa cattolica, tradizionalmente sensibile al problema, e anche — finalmente — dell’opposizione socialista.  

Pubblicato il

11.05.2001 03:30
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