La Stalingrado d’Italia è caduta e a Sesto San Giovanni comanda la destra. Questa città di 82.000 abitanti alla periferia nord di Milano, un tempo roccaforte comunista, è lo spaccato di una sinistra che non parla più a una classe operaia sempre più divisa e abbandonata. Ecco il nostro reportage. La lunga distesa di cartelloni elettorali è ormai malconcia. Le elezioni italiane del 25 settembre sono passate da qualche settimana e davanti ai palazzoni resistono pochi manifesti pasticciati. Tra questi quello di Isabella Rauti, neosenatrice per Fratelli d’Italia (Fdi), a cui una mano ignota ha aggiunto un baffetto hitleriano. È quasi indenne, invece, il poster di Enrico Letta, candidato premier del Partito democratico (Pd): una locandina impalpabile come la sua campagna elettorale. Nel dopoguerra Sesto San Giovanni era uno dei principali centri industriali italiani, grazie alla presenza di acciaierie come la Falck e di grosse industrie come la Breda, le Marelli e la Osva. Decine di migliaia di operai che votavano compatti Partito comunista (Pc), tanto che la città fu soprannominata la “Stalingrado d’Italia”. Poi, nel 2017, la caduta: dopo 72 anni il Pd, principale erede politico del Pc, perde alle amministrative locali vinte dalla Lega con Roberto Di Stefano. Il primo sindaco di destra si è poi riconfermato nel 2022, anno in cui, alla recente corsa per il Senato, Isabella Rauti, ha battuto lo sfidante democratico Emanuele Fiano. Il fatto è ricco di significati storici: la figlia di Pino Rauti, fondatore dell’organizzazione terroristica di destra Ordine Nuovo ha battuto il figlio di Nedo Fiano, internato ad Auschwitz e uno dei più attivi testimoni dell’Olocausto in Italia. Gli operai hanno tradito la sinistra o è piuttosto vero il contrario? Così s’interrogava il nostro collega Loris Campetti in un libro pubblicato nel 2018 che racconta la solitudine politica di una classe lavoratrice sempre più precaria e divisa: italiani contro stranieri, contrattisti contro interinali e via dicendo in una sorta di guerra tra poveri in cui tutti perdono tranne i padroni. Il caso di Sesto San Giovanni non è unico. Una dinamica simile è andata in scena in altri luoghi simbolo della classe operaia. Come Monfalcone, centro della cantieristica navale vicino a Trieste, dove la Lega nel 2016 ha vinto le elezioni locali dopo 70 anni di dominio rosso. Alla recente corsa per il Senato, sempre a Monfalcone, la coalizione di destra a guida Fdi ha superato di 13 punti quella di centrosinistra. Noi, per analizzare il voto che ha portato Giorgia Meloni a formare il Governo italiano più a destra dai tempi di Mussolini, siamo scesi in questa periferia milanese. La nostra prima tappa è un appartamento all’ottavo piano di una palazzina del centro. Ad accoglierci vi è Antonio Pizzinato, storico volto del sindacalismo italiano. Nato nel 1932 in Friuli, Pizzinato si è trasferito adolescente in Lombardia dove da apprendista fabbro ha scalato le gerarchie sindacali fino a diventare nel 1986 segretario generale della Cgil e, poi, Deputato, Senatore e Sottosegretario al lavoro con il primo governo Prodi. Il suo racconto parte da lontano, dagli anni bui del fascismo: «Qui è dove si sono sviluppati i primi scioperi come quello del 1943 contro la guerra che, di fatto, fu un’esplicita contestazione del regime fascista». L’ex dirigente sindacale vive a Sesto dal 1964: «Quando sono arrivato, la città era il quinto polo industriale del Paese con oltre 35.000 impiegati, la gran parte dei quali attivi in enormi centri di produzione siderurgica, ferroviaria, bellica ed elettrica». Luogo di aggregazione, incontro e confronto tra operai, le fabbriche nel dopoguerra sono un concentrato di fermento politico e sindacale. Poi, dopo anni duri, segnati a Sesto anche dalla piaga brigatista, inizia lo smantellamento: «Assistemmo al licenziamento di migliaia di lavoratori a cui contrapponemmo scioperi che durarono mesi a difesa dell’impiego. Ma ci fu poco da fare. Complici la recessione economica e la crisi della siderurgia e dell’energia a livello mondiale, tra gli anni Ottanta e Novanta le fabbriche sestesi hanno fermato la produzione, vendendo gli impianti o abbandonandoli in quelli che ancora oggi sono enormi capannoni inutilizzati». Si arriva così alla situazione attuale dove «restano delle fabbrichette» e dove il declino numerico delle tute blu è andato di pari passo col regresso di un Pd che, pur restando il secondo partito in città dietro a Fdi, «conta meno che cento iscritti». Niente a che vedere con i tempi in cui sua moglie Assunta era nella segreteria locale di un Pc che qui contava su oltre 15.000 membri. Salutati i coniugi Pizzinato, ci dirigiamo verso la Alstom, una delle ultime “fabbrichette” rimaste. La multinazionale francese mantiene qui uno stabilimento di manutenzione ferroviaria mentre il comparto energia è stato smantellato qualche anno fa. Fuori dai cancelli ci raggiunge Enrico Barbanti, delegato sindacale Fiom-Cgil. Abbigliato con la classica tuta blu, oltre trent’anni di esperienza in fabbrica, anche lui ha toccato con mano il cambiamento: «Quando ho iniziato a fare il delegato – ci dice – con 400 operai non eravamo l’azienda metalmeccanica più grossa in città; lo siamo oggi che gli impiegati sono 300». A cambiare è anche il tessuto sociale all’interno dei luoghi di lavoro e, di conseguenza, la modalità di fare sindacato: «Una volta c’era più coscienza sociale ed era più facile lottare per la tutela collettiva. Oggi all’interno delle fabbriche convivono varie forme contrattuali ed è molto più difficile organizzare una lotta quando metà dei colleghi ha un contratto a termine ed è molto più vulnerabile di me». Il centrosinistra rappresentato dal Pd fatica a parlare a questo mondo operaio in continuo cambiamento e colpito dalle politiche liberiste da lui stesso promosse. Enrico Barbanti snocciola gli esempi: «Le ultime riforme del mercato del lavoro hanno avuto la firma del Pd. È complicato andare poi dai lavoratori a spiegare che sei un partito di sinistra quando hai messo in atto il jobs act, favorendo precarietà e cancellando diritti ai lavoratori». L’operaio-delegato sottolinea infine come «la destra ha saputo prendersi lo spazio lasciato libero dalla sinistra come ha fatto Matteo Salvini con le pensioni, scopiazzando in campagna elettorale una proposta sindacale che il Pd aveva di fatto snobbato». A Sesto, gli alti forni sono spenti. Con l’auto, passiamo accanto a quella che era l’acciaieria Falck, di cui rimane ancora un grosso scheletro. È la più grande area industriale dismessa d’Europa su cui si sono posati gli occhi degli speculatori. Anni fa la Procura di Monza aveva aperto un’inchiesta per un giro di presunte tangenti che ha coinvolto Filippo Penati, ex sindaco di Sesto ed esponente di spicco del Pd nazionale morto nel 2019. La vicenda finì nel nulla, lasciando però il dubbio che nella Sesto rossa regnassero corruzione e malaffare. Certo è che il tessuto sociale non è più quello di una volta: le tute blu sono sempre di meno, ma crescono i lavoratori della logistica e i rider guidati dagli algoritmi, spesso migranti, ingabbiati in catene contrattuali e subappalti che favoriscono nuove forme di sfruttamento. È questa l’ultima frontiera di una classe operaia divisa e sempre più dimenticata dalla politica e dai sindacati. Tanto che c’è chi non ci crede più: «Come sindacato che rappresenta questi lavoratori non crediamo che le elezioni siano uno strumento utile da percorrere. Destra e sinistra poco cambia, nessuna forza politica è in grado di rappresentare gli interessi della classe lavoratrice». A spiegarci al telefono il suo punto di vista è Alessandro Zadra, coordinatore per la provincia di Milano del sindacato SiCobas. Un sindacato che rappresenta molti operai d’origine straniera e che si è distinto per battaglie partite dal basso. «Queste persone – ci dice il sindacalista – non hanno diritto di voto, ma mostrano una grande coscienza politica e consapevolezza che solo unendo la lotta sui luoghi di lavoro a quelle di carattere sociale (casa, carovita, guerra) si possono ottenere i diritti perché in Parlamento ormai non si decide più niente». Nel frattempo raggiungiamo il Parco della Bergamella, che la giunta leghista ha ribattezzato giardino Gianfranco Miglio, ideologo della Lega. Chissà, forse per contrapporlo al vicino parco Carlo Marx. Qui, in questo nuovo e bel quartiere sorto laddove c’era una palude, incontriamo Michele Foggetta, educatore di 37 anni e dirigente locale di Sinistra italiana: «È un luogo simbolo, un nuovo centro della città, realizzato dalle precedenti amministrazioni di sinistra, ma che la Lega ha fatto proprio». La scorsa primavera Foggetta ha sconfitto a sorpresa il candidato del Pd nelle primarie che a sinistra hanno designato lo sfidante del sindaco Di Stefano. Foggetta ha poi perso il ballottaggio finale per un migliaio di voti: «Siamo stati sconfitti ma abbiamo instaurato una buona dinamica partecipativa che ci potrà fare superare l’effettivo scollamento con una cittadinanza che sta cambiando». Un piccolo segnale è arrivato sempre lo scorso 25 settembre: al Senato è stato eletto anche il lecchese Tino Magni, per l’Alleanza Verdi e Sinistra. Saldatore, figlio di un impiegato di una fonderia di Sesto morto ancora giovane, una lunga carriera da dirigente in Fiom-Cgil alle spalle, Magni è il primo operaio eletto in Parlamento da diversi anni. «Al Senato cercherò di occuparmi di ciò che più mi sta a cuore: il lavoro, il futuro dei giovani e la lotta per i diritti» ha detto. Il rischio è che sia uno dei pochi a farlo.
|