Il mondo autentico di Mahfuz

Pochi grandi hanno avuto l'onore (dubbio, dal punto di vista del sottoscritto) di vedersi immortalati in una statua quando ancora vivi. Accade di solito ai presidenti e in particolare ai dittatori. Ma questo è ovvio, prima di cadere ogni grande e piccolo Saddam vuole immaginarsi eterno. Diverso è il caso degli intellettuali, degli artisti o degli scrittori: a cui naturalmente l'eternità dovrebbe essere concessa una volta per tutte, da parte dei propri estimatori e non degli architetti di regime.
Presumo che, per chiunque non sia un narcisista dell'eternità, vedersi fissato sulla pietra quando ancora le gambe reggono il peso del corpo dovrebbe dunque risultare un po' imbarazzante. Sono io, questo qui? Dunque io sono vivo eppure sono già tendenzialmente immortale? Dunque sono già praticamente morto?
Non so che cos'abbia pensato il Premio Nobel Naguib Mahfuz – lo scrittore egiziano scomparso pochi giorni fa all'età di 95 anni – quando la città del Cairo gli ha fatto l'onore (lo sgarbo?) di erigere per lui una statua su una passeggiata tra due trafficatissime arterie del quartiere residenziale di Mohandeseen, statua che lo ritrae mentre passeggia, bastone in mano e occhiali quasi da cieco, verso il traffico. Penso, presumo, abbia avuto un palpito di angoscia.
A parte le sue sensazioni, va però rilevato come Mahfuz sia stato celebrato qui in Egitto oltre ogni misura e decenza.
Non perché non lo meriti, lo merita eccome. Ma perché le celebrazioni di quella fatta non corrispondono proprio in nulla allo spirito e alla natura del personaggio. Mahfuz era modesto, questi florilegi celebrativi sono stati magniloquenti. Lui era sobrio e profondo, loro superficiali e pomposi. Lui era innamorato della verità, quelle sono state false e narcisistiche. Già, l'Egitto si sta facendo bello, da anni, sulle spalle di Mahfuz; e questo non fa giustizia di un fatto fondamentale, che la gloria spetta in realtà solo a lui come scrittore, non certo a loro come compatrioti o a lui in quanto egiziano. L'Egitto, nei decenni, non ha né aiutato né promosso davvero le sue opere: le ha al massimo sventagliate ai quattro venti quando, dopo averle sfruttate in tutti i film e le telenovelas possibili, le ha potute ammantare dell'aureola del Nobel e mostrare al mondo come un trofeo di guerra. Lo provi il fatto che Mahfuz vende all'estero milioni di copie e in Egitto poche migliaia.
A parte questo scarto stridente fra la grandezza di Mahfuz e la modestia (per essere eufemistici) del paese che gli ha dato i natali, il vero problema è che con la morte di Mahfuz rischia di scomparire anche la sua testimonianza umana e intellettuale.
Egli incarnava un Egitto bello, profondo, autentico e autenticamente popolare. Egiziano, insomma. Mahfuz incarnava il suo quartiere popolare, la Gamaleyya, come metafora di un mondo di poveri che avevano il pregio della dignità (un po' come quelli di Pasolini) e non ancora l'ambizione grossolana all'imborghesimento. Era il portavoce di un'avventura umana radicata nella storia dei vicoli, delle stradine di quartiere e nel candore di quella gente che, davvero, rappresentava un intero universo e una tradizione reale, di quella cultura ancestrale, ereditaria, che non subiva travasi di modernità effimera dall'esterno. Era il testimone di quella verità popolare che forse non esiste più, una verità che con la sua morte rischia di non essere nemmeno più assunta a principio di confronto con le brutture dello sviluppo capitalistico, delle ingiustizie sociali, delle sperequazioni economiche fra miliardari e poveri.
Insomma, con Mahfuz rischia di morire una visione "sociale" del mondo che va ben al di là del socialismo, poiché coincide con quel piccolo mondo antico che ha fatto la bellezza dell'Egitto e oggi, sommerso dalle ambizioni massive alla banalità culturale dei media, è diventato conformismo proletario. Rischia di scomparire l'eredità che le città raccolgono dal passato, dal lento costituirsi di una mentalità, di una coscienza di popolo, di un patriottismo regionale o rionale ancora intatti perché ancora indipendenti dalle regole economiche del mondo. Rischia di dissolversi quel miracolo per cui una città è l'espressione di chi la abita da dentro, non di chi la condiziona dall'alto o da fuori come le grandi e sciagurate politiche economiche che stanno devastando il Cairo e la sua bellezza, la sua cultura (sempre meno popolare, sempre più consumistica) fatta di mestieri e saperi, di sentimenti e modalità di sopravvivenza autoctoni. Questo Oriente che le opere di Mahfuz raccontano senza nessuna traccia di esotismo o di deteriore orientalismo, ma con quel vissuto, sincero amore di chi ne è parte costitutiva.
Ma con Mahfuz rischia anche di scomparire un atteggiamento morale verso la religione che l'Egitto farebbe bene a conservare.
Mahfuz ha sempre avuto fede. Le sue ultime parole sono state "Ya Rabb!" (O Signore!) a riprova che riteneva la fede un elemento fondamentale della società egiziana e forse persino un suo collante, insostituibile con qualsiasi altra formula di importazione. (Lui che professava però che la democrazia doveva essere adottata anche prima dell'acculturazione del popolo). Ma credeva, aveva fede. Senza subordinare il proprio rispetto per la religione al prono, passivo dogmatismo dei più. Alla sua fede accompagnava anzi un rapporto di interrogazione continua (che gli valse censure e l'aggressione di un islamista nel 1994) sia con il trascendente che con le altre religioni. Per lui la religione doveva saper accogliere un atteggiamento "umanistico", quindi conservare al suo interno alcuni elementi fondamentali tipici dello spirito del romanzo e della modernità: il dubbio, il mistero, la magia, il dialogo con la società e con le forze mutevoli della storia.
Insomma, Mahfuz scompare portandosi con sé anche questo fondamentale tributo alla religione: la capacità di renderla un patrimonio individuale, di perpetuo dialogo con Dio. Non una tabella di regole insindacabili con cui annientare, annichilire, ammorbare la propria libertà umana.
Era un uomo libero, Mahfuz. Era un uomo aperto al mondo.
Oggi si assiste a commemorazioni che sembrano contraddire in tutto e per tutto il suo spirito e il suo messaggio. Invece di raccogliersi in preghiera, sobriamente, di fronte alla sua salma, si parla di grandi opere per celebrarne la figura. Si parla di un monumento al romanziere con cui rimpiazzare la gigantesca statua di Ramses davanti alla stazione del Cairo. Si parla di palinsesti televisivi da modificare al fine di dare spazio ai film tratti dai suoi romanzi. Si raccolgono con patetico orgoglio le testimonianze dei media e delle agenzie di stampa occidentali, quasi a farsi belletto della sua fama a scapito della propria dignità. C'è persino chi ha avuto la geniale idea di pubblicare intere pagine di giornale con un necrologio al Maestro e il nome... della propria ditta in calce!
Ma per noi lui resterà un uomo semplice. Straordinario nella sua semplicità, indimenticabile nella sua umanità.

Pubblicato il

08.09.2006 04:00
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