Il modello danese

Secondo un’inchiesta recente – scrive Le Monde del 25 gennaio – nei paesi scandinavi la percezione del benessere è la più forte e la differenza di soddisfazione fra i gruppi sociali è la più ridotta. Fra questi Paesi, oggi è di moda la Danimarca, ammirata come un vero “modello” (porta sfiga, avvertono i pessimisti: anche il Giappone e la Germania lo sono stati…). Un modello detto “flessicurezza” (flessibilità e sicurezza), nel contesto di una forte coesione, di una fiscalità fra le più elevate, di una sindacalizzazione record (80 per cento!), di un costo del lavoro superiore a quello tedesco (28,5 euro all’ora). I tre pilastri del successo sono: flessibilità per le imprese, sicurezza per i lavoratori, misure attive per il ricollocamento dei disoccupati. Flessibilità. Una manna per le imprese, di cui 3/4 occupano meno di 20 lavoratori, accettata dai sindacati: il preavviso di licenziamento è brevissimo (nell’edilizia: 5 giorni!) e il suo costo è minimo. Ma il 30 per cento dei licenziati viene riassunto dalle medesime imprese. Sicurezza. L’indennità di disoccupazione è versata per ben 4 anni e il suo livello varia secondo il reddito: per i salari medio-bassi (23 mila euro, 35 mila franchi all’anno) è del 90 per cento. È finanziata sia dalla fiscalità, sia dai contributi. I saccentoni liberisti ripetono che ciò dissuade dal riprendere un impiego. In Danimarca, sono clamorosamente smentiti: i licenziati rimangono disoccupati, mediamente, da 3 a 6 mesi, e solo 1 su 10 diventa un disoccupato di lunga durata. Politica attiva dell’impiego. Ogni anno, il 20 per cento dei lavoratori partecipa a una formazione. I disoccupati sono tenuti a seguire corsi e stage, ma anche ad accettare, al limite, un impiego che implica 4 ore di viaggio in un giorno. Grazie a questo modello, la disoccupazione è scesa in dieci anni dal 12 al 5 per cento e il tasso di occupazione (occupati sul totale delle persone in età lavorativa) è il più elevato dell’Unione Europea (75 per cento). Francesi e tedeschi guardano con meraviglia alla Danimarca, poiché i loro tassi di disoccupazione sono il doppio (10 per cento) e quelli di occupazione sono di dieci punti inferiori (65 per cento). Noi svizzeri, invece, rivaleggiamo con il Reame nordico: 4 per cento di disoccupati e un tasso di occupazione del 78 per cento. Ma qualcosa mi dice che stiamo rompendo il giocattolo. I danesi, i loro dirigenti e i loro imprenditori sono fieri del loro modello. Da noi, politici, imprenditori ed economisti al loro servizio ci stremano con le loro giaculatorie: dobbiamo ridurre le imposte, gli oneri sociali e i salari; ridurre le indennità ai disoccupati e la loro durata; la ricerca del consenso ci paralizza; i sindacati sono un freno allo sviluppo; guardiamo all’America… Il paradosso è che occorra un economista americano, Jeremy Rifkin, per rilanciare il “sogno europeo” quale alternativa all’incubo americano...

Pubblicato il

04.02.2005 13:00
Martino Rossi