Guardiamo allo sfruttamento, alla disoccupazione, a chi soffre dentro e fuori del mondo del lavoro con indifferenza. Siamo ormai colpiti dalla stessa assuefazione al male che nel 1942 provava la popolazione di fronte alla deportazione degli undicimila bambini francesi ebrei e di cui racconta Hannah Arendt nel suo libro “La banalità del male”. Attraverso una serie di riflessioni Tiziana Filippi, autrice dell’articolo, analizza il nostro approccio col male di un ambito importante della nostra vita: il lavoro. Ed emerge che, oggi come allora, abbiamo ridotto il male nel lavoro ad una realtà “normale” con cui accettiamo di convivere quotidianamente. Il male nel lavoro viene praticato e legittimato in nome delle necessità dello stesso lavoro, viene considerato come un dovere al quale non ci si può sottrarre. Dalla fine degli anni Novanta, ha raccontato recentemente Anna Maria Mori sul “Manifesto”, sono state poste a Parigi le prime targhe commemorative in ricordo dei bambini ebrei deportati dalla Francia dal 1942 al 1944. Finora sono state posate in una quarantina di scuole. All’origine di questa iniziativa, che si sta estendendo anche ad altre città della Francia, ci sono Annette e Jacques Klajnberg che, allora bambini, sono sopravvissuti per caso. Da alcuni lavori di ricerca risulta che siano stati deportati dalla Francia verso i campi di sterminio 11 mila bambini, 2 mila dei quali di meno di sei anni. La tragica sorte dei bambini ebrei in Francia era emersa nel 1961 nel corso del processo ad Eichmann – che era stato il responsabile dell’organizzazione dei treni che portavano gli ebrei nei campi di sterminio – quando venne alla luce la vicenda di 4 mila bambini che nell’estate del ‘42 erano stati separati dai genitori e sequestrati dalla polizia francese nel centro di raccolta di Drancy, in attesa di essere deportati. Il racconto di un orrore Hannah Arendt che aveva assistito al processo a Gerusalemme, racconta nel suo La banalità del male che nel corso di quell’estate del ‘42 si era proceduto alla deportazione degli ebrei stranieri apolidi con la piena collaborazione delle autorità di Vichy, che poterono dimostrare così tanto zelo grazie a una radicata xenofobia francese nei confronti degli ebrei stranieri. Era stato Laval in persona, allora primo ministro, a proporre che le deportazioni fossero estese ai bambini al disotto dei sedici anni. Pare che allora non si sapesse ancora che cosa significasse “trasferimento”. L’industria nazista del crimine era un apparato complesso che aveva bisogno della collaborazione di tutti. Funzionari, tecnici, impiegati, uomini di scienza: ognuno nel suo ambito, definito da una oculata divisione del lavoro, doveva svolgere coscienziosamente il proprio lavoro contribuendo direttamente o indirettamente alla “soluzione finale”. Eichmann, che era lo specialista dei trasporti ferroviari, disse, nel corso del suo processo, che si sentiva liberato da ogni colpa perché stava facendo il suo dovere conformemente agli ordini. Non aveva nulla a che fare con lo sterminio fisico perché era fin troppo occupato dal lavoro che gli avevano ordinato. L’opera di sterminio era anche a pieno titolo un lavoro come tutti gli altri con i suoi problemi, le sue difficoltà tecniche, che volenti o nolenti andava eseguito, e quindi tanto valeva farlo scrupolosamente. La consuetudine e la banalità dei gesti che si compivano nel lavoro insieme con la sottomissione all’autorità consentivano di non pensare al significato di quello che si stava facendo. Gli stessi poliziotti degli Einsatzgruppen, la cui specialità erano le esecuzioni di massa, si concentravano sugli aspetti tecnici e sull’organizzazione razionale del lavoro per uccidere nel minor tempo il maggior numero di ebrei e tendevano così ad allontanare da sè la percezione degli effetti del male che stavano facendo. Himmler, capo delle Ss, consigliava di non pensare «che orribili cose sto compiendo», ma piuttosto «che orribili cose devo vedere nell’adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle!». Il fatto che il male abbia potuto compiersi attraverso la normale routine del lavoro ha fatto pensare allo psichiatra e psicologo Dejours che debba esserci un legame profondo tra il rapporto che abbiamo con le forme consuete di organizzazione del lavoro e il fatto che il male possa trasformarsi in qualcosa di banale (cfr. area del 13.12.’02). In questi ultimi decenni abbiamo assistito a un gravissimo e progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro insieme a una crescente indifferenza nei confronti di chi soffre dentro e fuori il mondo del lavoro (i disoccupati). In questo processo, nel quale è stata cooptata la maggioranza della popolazione (chi come complice zelante, chi come semplice consumatore di hamburger McDonald’s), le ingiustizie, la sopraffazione e la marginalizzazione dei più deboli sono ormai considerate qualcosa di consueto, di inevitabile, qualcosa di banale che non suscita più indignazione. Per questa ragione secondo Dejours il concetto di Hannah Arendt di banalità del male diventa centrale per capire che cosa stia succedendo nell’ epoca odierna. Possiamo considerare come una rinnovata forma di banalità del male nel lavoro le ristrutturazioni, i licenziamenti (senza preavviso), la messa in discussione di alcune conquiste sociali acquisite, il subappalto, il lavoro precario, il dovere delle ore supplementari, il lavoro illegale, i compiti pericolosi per la salute ora aggravati dalle infrazioni alle legislazioni sul lavoro, gli incidenti crescenti sul lavoro, i metodi di gestione e di direzione manageriali caratterizzati dalla disumanizzazione dei rapporti di lavoro. Strumenti non più uomini La banalità del male è anche la paura quotidiana di non essere all’altezza delle esigenze dell’impresa, la mancanza di un riconoscimento, la minaccia del licenziamento, il clima di precarietà, le pratiche quotidiane dei ricatti e delle insinuazioni per sottomettere un altro. È anche paradossalmente la costrizione a lavorare male, per rispettare tempi e procedure contraddittorie, che pone il lavoratore in una condizione di disagio. La cancellazione, grazie al clima di minaccia e alla concorrenza tra lavoratori, delle tracce di quello che non funziona e delle opinioni divergenti, insieme con la produzione e la diffusione sistematica di discorsi menzogneri che servono a occultare la realtà del lavoro e le condizioni di disagio e di sofferenza in cui viene svolto. Il male nel lavoro e la sua negazione sono stati sotto gli occhi di tutti con la recente tragedia dello shuttle. Quasi un anno fa sette dei nove esperti membri del comitato di consulenza sulla sicurezza della Nasa avevano fatto presente la necessità di incrementare il bilancio prevedendo seri problemi di sicurezza. La risposta è stata il loro licenziamento con la motivazione che si trattava di una operazione di svecchiamento del comitato con del personale più giovane. Si suppone che siano stati questi giovani da valorizzare a non ritenere pericoloso il danno all’ala sinistra dello shuttle che era stato notato alla sua partenza. Legittimare il male La questione centrale è che il male nel lavoro viene praticato e legittimato in nome delle necessità dello stesso lavoro, della sua qualità e della sua efficienza: il male nel lavoro non è considerato a rigore un male, ma qualcosa di ineluttabile, qualcosa che fa parte del suo “naturale” meccanismo di funzionamento, un dovere al quale non ci si può sottrarre perché non dipende da noi. D’altra parte, similmente all’efficienza nazista, l’odierna esecuzione del male necessita della collaborazione della maggioranza. Ogni lavoratore sa dalla sua esperienza quanto sia importante la messa in gioco della sua soggettività per far funzionare ogni impresa, ogni servizio, sia privato che pubblico. Ognuno sa quanto sia importante lo zelo nel lavoro, a tutti livelli , sia nel sottomettersi agli ordini che nell’impartirli. Anche oggi si tratta di non pensare al senso di quello che si sta facendo e di dare spazio agli stereotipi del realismo economico e delle guerre concorrenziali tra imprese che presentano il male come un prezzo inevitabile da pagare per salvaguardare la libertà e il benessere. In un sempre rinnovato clima di guerra, si fa appello alla virilità in nome della giusta causa del lavoro per mettere a tacere la paura, le esitazioni, il senso morale offeso e per pretendere rendimenti sempre più elevati e abnegazione nel sopportare e nell’infliggere la sofferenza e le ingiustizie. La banalità del male è oggi anche tutto quel tempo che il lavoro toglie ai genitori per poter stare quietamente con i propri figli e aiutarli a crescere. C’è bisogno di tanto tempo per stare con i figli – ha detto recentemente Umberto Galimberti su La Repubblica commentando l’autorizzazione, da parte dell’agenzia federale americana per i farmaci, dell’uso del Prozac (uno psicofarmaco che ha come effetti collaterali la diminuzione della crescita) per i bambini e per gli adolescenti depressi –, c’è bisogno di tanto tempo per creare quella fiducia di base che consenta ai bambini di crescere se non felici, almeno sereni, o quantomeno non depressi. Abbiamo cominciato con il parlare di bambini per tornare a parlarne passando attraverso la questione del lavoro. Vale allora la pena di ricordare cosa successe in Francia dopo quell’estate del ‘42. Quando i tedeschi chiesero il permesso di deportare anche gli ebrei non apolidi i francesi si rifiutarono di collaborare. Era ormai chiaro che cosa significasse “trasferimento” e si cominciò a disubbidire sabotando la deportazione degli ebrei in generale. Ma anche altri ,utilizzando ogni occasione e ogni interstizio offerto dalla realtà, disobbedirono o si sottrassero agli ordini (l’agire per sottrazione è tra l’altro una pratica diffusa nelle strategie di sopravvivenza femminile). Come per esempio la polizia belga che non collaborò. O i ferrovieri belgi che , quando i tedeschi affidavano loro un treno di deportati , non sigillavano gli sportelli oppure organizzavano delle imboscate in modo che gli ebrei potessero fuggire.

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01.05.03

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