Il lungo addio della Fiat

È passato un secolo dai festeggiamenti megagalattici con cui la famiglia Agnelli aveva voluto ricordare ai cittadini sabaudi e del mondo che la premiata Fabbrica Italiana Automobili Torino compiva cent’anni e godeva di ottima salute. Eppure è successo soltanto cinque anni fa, nel 1999. Da allora alla Fiat è capitato di tutto, al punto che oggi è in discussione non tanto l’autonomia quanto la sopravvivenza della prima impresa italiana per volumi produttivi, numero di dipendenti e influenza sulla vita politica ed economica del paese. In questi cinque anni è modificato l’assetto proprietario in seguito all’accordo “epocale” del 2000 con il colosso americano delle quattro ruote, la General Motors: il 20 per cento delle azioni dall’azienda torinese passava ai soci Usa in cambio del 5,4 per cento della Gm alla Fiat, a cui si aggiungevano due joint venture tra Fiat Auto e Gm Europa (la tedesca Opel), finalizzate agli acquisti comuni di componenti e alla produzione di motori e cambi. Appena un anno dopo la stipula dell’accordo si cominciava a parlare di crisi e iniziava il più straordinario turnover al vertice dell’azienda e del management. Uno dopo l’altro morivano Gianni e Umberto Agnelli e l’universo Fiat precipitava nel caos più totale. Mentre i conti sprofondavano nel mar rosso dei debiti, la proprietà proiettava sulla scena lo strip-tease della multinazionale torinese. Via la Fidis, via il 34 per cento della Ferrari (a Mediobanca), quando il settore ferroviario era già passato in mano ai francesi. Stabilimenti chiusi in tutto il mondo, almeno una ventina, vendita del settore siderurgico (Teksid) a una società americana di fondi e della Fiat Avio alla “società dei presidenti”, la Charlyle, fino all’ultima cessione in ordine di tempo, la Rinascente ai francesi di Ochan. Per non parlare di società minori, dal settore finanziario a quello alimentare. Per non parlare della vendita della Toro Assicurazioni e delle parti migliori della componentistica a società giapponesi. Un dimagrimento finalizzato a un solo scopo, fare cassa, a cui ha contribuito la vendita della quota azionaria posseduta in Gm. Ma ormai la Fiat è un pozzo senza fondo, i soci americani si rifiutano di partecipare alla sua ricapitalizzazione scendendo così dal 20 al 10 per cento e annunciano la loro inderogabile intenzione di non rispettare la clausola forse più importante dell’accordo del 2000: la put option, in base alla quale dal 25 gennaio del 2005 la General Motors sarebbe tenuta ad acquistare l’intera Fiat auto, qualora i torinesi decidessero di disfarsene. Ora le banche creditrici – tutti i principali istituti italiani – presentano i conti e annunciano che potrebbero convertire il credito in azioni nella seconda metà del prossimo anno. Scelta che non entusiasma i banchieri, reduci dai crack Parmalat e Cirio, che rischiano di ritrovarsi in mano poco più di un pugno di sabbia. Le cause della crisi Fiat sono molteplici. Una globalizzazione miserabile alla ricerca di nuovi mercati ha indebolito la sua presenza nelle aree strategiche (Italia e Europa), dove la concorrenza internazionale non fa sconti e rosicchia quote di mercato mese dopo mese. Dal secondo posto subito dietro la Volkswagen, la Fiat è scesa in Europa al sesto, dimezzando la sua quota (7,4 per cento). Bassa qualità, i nuovi modelli o non arrivano o giungono in ritardo, mentre le casse del gruppo vengono svuotate da operazioni spregiudicate come l’acquisto della società di macchine movimento terra americana, la Case, inglobata nella New Holland (Cnh). Si dice che l’auto è il core business della Fiat ma si percorrono strade opposte, si indebolisce la ricerca e non si parla più di innovazione, il che equivale a regalare intere aree e segmenti di mercato alla concorrenza. Si rinvia troppo a lungo la stipula di alleanze internazionali e quando si fanno, si sbagliano. La Gm ha problemi finanziari e produttivi enormi, si sa che considera i suoi interlocutori vittime sacrificali (come la Daewoo) o pesi di cui liberarsi; la Opel è in crisi ed è la marca che insieme alla Fiat perde di più in Europa; infine, la Opel è troppo simile per tipo di prodotti e presenze sul mercato ai marchi torinesi per non temere cannibalismi e sinergie dagli effetti sociali devastanti (così è stato nei motori). Per concludere l’elenco degli errori, non si possono non ricordare le colpe della proprietà, la vorace e litigiosa famiglia Agnelli divisa in mille rami che si scannano sulle spoglie dell’impero costruito dal nonno (a costo di enormi sacrifici sociali, non del nonno ma dei lavoratori) e dissipato dai nipoti. A completare l’opera, manager incapaci e un’organizzazione del lavoro monarchica incentrata sulla gerarchia, l’obbedienza militare e la disciplina. A che punto è la crisi? E, soprattutto, quali conseguenze ha comportato e rischia di comportare ancora per i lavoratori e il paese? Ora, alla guida del gruppo Fiat c’è il pluridecorato Luca Cordero di Montezemolo, insediato a tutela degli affari di famiglia dopo la morte di Umberto. Il presidente è riuscito ad accumulare nelle sue mani troppe cariche: guida la Ferrari e la Confindustria, oltre ad avere lungamente presieduto la federazione degli editori italiani. La voce che circola con insistenza è che molto presto lascerà la guida della Fiat nelle mani del troppo giovane Elkan, una scelta motivata con ragioni etiche (per evitare conflitti di interessi nei rapporti con governo e sindacati, non essendo chiaro se nelle trattative rappresenta l’insieme del padronato o la sua famiglia) ma che a molti fa venire in mente la poco gloriosa tradizione dei monarchi piemontesi che scappano quando la barca è in balia dei marosi (la fuga di casa Savoia nel ’43). Finché resterà al Lingotto, Montezemolo (succeduto a Umberto e Gianni) avrà al suo fianco l’amministratore delegato Marchionne (preceduto da Morchio, Barberis, Galateri, Cantarella, Romiti…) e al settore automobilistico il tedesco Demel (succeduto a Boschetti, Testore…). Provate a pensare che gigantesco casino può produrre in una grande azienda tale successione di capi, ognuno con idee, strategie, collaboratori, modelli organizzativi completamente diversi e altrettanti piani per “portare la Fiat fuori dalla crisi”. Lo scontro nei gruppi dirigenti è al massimo livello, come le rese dei conti. A sopportare le conseguenze di questa debacle sono naturalmente i lavoratori. Tra licenziamenti, blocco del turnover, vendite e terziarizzazioni, l’insieme dei dipendenti del Lingotto è meno della metà dei 297 mila in bilancio a fine anni Novanta. Nell’auto, i dipendenti che negli anni Ottanta erano 148 mila soltanto in Italia, ora sono 40 mila in tutto il mondo. Evitiamo di riproporvi l’elenco degli stabilimenti chiusi nei vari continenti per soffermarci sulle prospettive future. In assenza di nuovi modelli, che arriveranno sul mercato in ritardo rispetto alla concorrenza, e avendo l’azienda di fatto abbandonato la ricerca sui nuovi propulsori, cresce il rischio di una rapida uscita dal mercato dei marchi Fiat e di conseguenza traballano anche gli stabilimenti italiani fino a poco tempo fa considerati intoccabili, da Mirafiori a Termini Imerese, essendo che Arese ha già esalato l’ultimo respiro. La meccanica è ormai finita nelle mani della Opel, in Austria e in Slovacchia, oppure trasferita dalla Fiat in Argentina. La componentistica abbandona Torino e Melfi e vola in Polonia e in Turchia. Per la prima volta nella sua storia, la Fiat nel 2004 costruirà più automobili all’estero che non in Italia (Polonia, Turchia, Brasile, Cina...). Di conseguenza, si può dire che gli unici stabilimenti italiani che hanno ragionevoli speranze di sopravvivere sono quelli di Melfi e di Pomigliano d’Arco (Alfa Romeo), appetibili per qualsivoglia ipotetico acquirente. Intanto si fa carta straccia dei diritti in fabbrica. Unico fatto in controtendenza, la vittoria dei lavoratori e della Fiom a Melfi di cui abbiamo reso conto su questo giornale. Il 14 di questo mese, dunque, scade la tregua concordata tra il Lingotto e la General Motors. Gli americani diranno che il put non è esigibile perché la Fiat è cambiata e la Gm, che sta già facendo lavorare gli avvocati, non è più tenuta ad acquistare alcunché. Né gli americani sono disposti a mettere soldi per ricapitalizzare (se alla fine Gm fosse costretta ad acquistare la Fiat auto, le condizioni sarebbero tali da farlo risultare il male maggiore). Allora, che fare? Come tener buone le banche creditrici, visto che le vendite continuano a scendere e per il pareggio di bilancio dell’auto bisognerà attendere (ammesso e non concesso che ci sia tempo) il 2006? C’è chi sostiene che, una volta scritta in qualche modo la parola fine nel rapporto con gli americani, la Fiat sarebbe finalmente libera di pensare a relazioni internazionali meno suicide di quella realizzata con Gm. Si fa sempre più spesso il nome dei francesi della Peugeot – magari per salvare Alfa, Lancia e forse Ferrari (dentro un multinazionale polo del lusso) –, meno quelli di DaimlerChrysler e Toyota. L’unica soluzione ragionevole, suggerita da tempo dalla Fiom, il più importante sindacato metalmeccanico, è l’intervento pubblico. Lo stato italiano ha sempre foraggiato la Fiat con le varie rottamazioni, le casse integrazioni, le mobilità, gli sgravi fiscali. Interventi a perdere, senza contropartite da parte dell’azienda. Ora si tratterebbe di fare il contrario: mettere dei soldi per entrare nel capitale e imporre un piano di risanamento e rilancio, investendo il danaro della collettività nell’innovazione e nella ricerca nel settore automobilistico, difendendo così futuro e occupazione. Non è vero che i vincoli europei impedirebbero tale intervento, come dimostrano le semipubbliche Renault in Francia e Volkswagen in Germania. La Fiat è un patrimonio collettivo dell’Italia, il suo destino non può essere abbandonato nelle mani bucate della famiglia Agnelli.

Pubblicato il

03.12.2004 03:30
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