Il 2001 si è appena congedato, il ghiaccio stringe in una morsa impietosa la città di Torino e i suoi abitanti. A Cordoba, invece, è estate piena e il caldo e la rabbia fanno ribollire una popolazione ridotta alla fame. Torino e Cordoba hanno una cosa in comune, o almeno ce l’avevano: la Fiat con i suoi operai. Quando a fine dicembre la crisi finanziaria e produttiva della multinazionale italo-americana esplose in tutta la sua violenza, dall’altra parte dell’oceano e dell’equatore l’Argentina stava precipitando in un gorgo dissolutorio. Un gorgo, o meglio un baratro scavato dalle ricette del Fondo monetario, dai ricatti della Banca mondiale, dall’insipienza del presidente De La Rua e dall’iper-liberismo subalterno del ministro Cavallo. A Torino la Fiat ammetteva di essere strangolata da un indebitamento di almeno 7,5 miliardi di euro (quasi 15 mila miliardi di lire), annunciava l’avvio di una stagione di lacrime e sangue (18 stabilimenti chiusi in tutto il mondo e 6 mila licenziamenti tanto per cominciare), ma al tempo stesso tentava di tranquillizzare sindacati e lavoratori italiani: qui da noi non si perderà un solo posto di lavoro, saranno altri a pagare i prezzi della crisi. Saranno per primi gli operai argentini, magari quelli turchi, certamente i polacchi. Nessuno cade nel tranello Nessuno in Italia cadde nel tranello: l’americanizzazione della Fiat, seguita all’accordo con il gigante statunitense dell’automobile General Motors, aveva avviato un piano di ridimensionamento industriale e di sinergie in Europa con la Gm tedesca (la Opel), a tutto svantaggio della multinazionale torinese: il pesce grande mangia il piccolo, da che mondo è mondo. Mentre giura che in Italia nessun posto di lavoro verrà cancellato, la Fiat chiude lo stabilimento torinese di Rivalta e ne trasferisce i lavoratori a Mirafiori, preludio per un drastico ridimensionamento occupazionale. In Germania, intanto, i dirigenti della Opel spiegano ai dipendenti e al loro sindacato, la Ig-Metal, che se non riducono le pretese e non aumentano la produttività saranno scalzati dai lavoratori italiani, più competitivi perché meno costosi di quelli tedeschi. Divide et impera è il jolly dei padroni, da che mondo è mondo. Il capitale va a istallarsi là dove c’è, o potrebbe esserci in futuro, il mercato. Dunque in tanti finiscono per atterrare negli stessi aeroporti inseguendo sogni di miracoli economici e chimere: un’America latina conquistata dal liberismo, un’Asia dove l’alto numero degli abitanti potrebbe prefigurare un alto numero di consumatori, un Est europeo liberato dal comunismo e dunque pronto alla penetrazione capitalistica. Più qualche brandello d’Africa, a Tunisi e a Johannesburg. Prendiamo ancora la Fiat come riferimento per riflettere sulla globalizzazione e le modificazioni del lavoro e della coscienza di classe. La mappa della casa automobilistica torinese occupa esattamente i suddetti luoghi della globalizzazione: Brasile e Argentina, India, Cina, Vietnam e Turchia, Polonia e Russia, Sudafrica, Egitto e Marocco. Ma in America latina le cose vanno come vanno, l’Argentina è esplosa e il mercato interno non esiste più, mentre le esportazioni sono impraticabili grazie alla geniale trovata della parità di cambio tra peso e dollaro, un inverosimile 1 a 1. Il Brasile oscilla tra pesanti crisi e troppo brevi riprese, dunque si dissolve il sogno di trasformare il 10-15 per cento dei suoi 160 milioni di abitanti in acquirenti di automobili, telefonini e quant’altro. L’India e la Cina non decollano e gli investimenti produttivi non rendono, la nuova fabbrica indiana della Fiat è usata come magazzino, mentre in Cina il mercato dell’auto non raggiunge le 500 mila vetture l’anno. A Est l’unico mercato che cresce è quello criminale e sessuale. L’economia non decolla, le disuguaglianze aumentano e la fascia dei consumatori è troppo ristretta per determinare un mercato certo e affidabile. Nei paesi dove la socializzazione era – almeno a parole – la chiave di volta di ogni relazione sociale, economica e umana, oggi si socializza soltanto la miseria. Dove il mercato non c’è Ma il capitale va a istallarsi anche dove il mercato non c’è o non c’è ancora, ma dove la forza di lavoro è disponibile senza riserve, pretese e diritti, dove la flessibilità è massima e i salari minimi. Dunque, l’Est europeo, il Nordafrica, l’Estremo oriente o la Turchia diventano luoghi interessanti per le multinazionali delle automobili, delle t-shirt, delle scarpe, del legname che scelgono di produrre nei paesi poveri, a costi stracciati, merce da immettere nei mercati ricchi nel Nord del mondo. Questo comporta, di conseguenza, un crollo della produzione e dunque dell’occupazione in Europa, negli Stati uniti, in Canada, in Giappone. Ma i lavoratori del Sud e dell’Est del mondo sono, proprio in quanto privi di diritti, forza di lavoro di riserva, da importare da noi per abbassare il costo di produzione, oppure in casa. La moda – tessile e calzaturiero – made in Italy nasce a Timisoara, in Romania, dove un’operaia costa meno di 100 dollari al mese, appena più di un’albanese, il triplo però di quel che vecchi e bambini dei quartieri diseredati di Tirana tirano su ogni mese cucendo in casa le tomaie per il padrone pugliese. La merce da quelle parti costa meno alle griffe italiane, e non solo per il basso costo del lavoro ma anche per la mancanza di vincoli ambientali che consente a una conceria di scaricare nel fiume senza tante storie e controlli. Le regole violate Forza di lavoro di riserva, però, vuol dire che siccome c’è sempre un paese più a Est o più a Sud del mondo, prima o poi spunterà fuori un altro luogo dove produrre a prezzi ancor più stracciati. Oggi gli svedesi di Ikea producono legname sul delta del Danubio violando ognuna delle regole che i sindacati di Stoccolma sono riusciti a imporre in casa. Ma domani Ikea potrebbe scoprire che il Kazakhstan è ancor più risparmioso e mollare da un giorno all’altro senza lavoro gli ex pescatori di storione moldavi e ukraini che avevano mollato le reti, attratti dal sogno di un posto fisso sotto una multinazionale. Con l’esplodere della crisi economica ad Ankara, gli operai turchi della Fiat di Bursa sembravano destinati alla disoccupazione di massa, finché la società torinese non pensò di sostituire il mercato interno scomparso con quello europeo, trasferendo in Anatolia la produzione di alcuni modelli che originariamente avrebbero dovuto essere prodotti in Italia. Modelli poi venduti a Roma, a Berlino e a Parigi. Domani, però, le tute blu di Bursa potrebbero essere liquidate senza preavviso e senza buonuscita. Come capita agli operai Fiat di Cordoba, in Argentina: da 5-6 mila sono stati ridotti a mille, per sei mesi a metà stipendio e poi si vedrà. Quel che è certo è che chi ha imposto il cambio fisso peso-dollaro ha di fatto decretato l’impossibilità di esportare vetture e pezzi di vetture dall’Argentina al Brasile, e dunque gli operai argentini non hanno neppure la fortuna di quelli turchi di poter lavorare per l’export. In compenso in Brasile, dove la Fiat è diventato il numero uno nel mercato dell’auto superando per la prima volta la Volkswagen, i dipendenti della multinazionale italo-americana sono scesi da 22 mila a 9 mila. Licenziamenti, blocco del turnover, outsourcing (esternalizzazioni) sono i sottotitoli della strage operaia. Flessibili come giunchi, importabili nelle terre sindacalizzate dove non si potrebbe lavorare in un cantiere navale per più di 40 ore settimanali, dove non si dovrebbe operare esposti all’amianto, gli operai immigrati vengono utilizzati per produrre dumping sociale e abbassare il livello dei diritti nei punti alti dello sviluppo, o meglio del consumo. Governi liberisti moderati (cioè di centrosinistra) o scatenati (cioè di centrodestra) modificano la legislazione per venire incontro ai Diktat della globalizzazione. Il capitalismo globale esaspera le sue tendenze illiberali fino a minacciare le nostre libertà quotidiane. Fino ad assumere sempre più spesso connotati autoritari, fascisti, razzisti, militari. Il Nord del mondo, di conseguenza, chiude gli occhi di fronte alle violazioni dei diritti umani nei paesi vittime delle ricette del Fondo monetario, della Banca mondiale, del Wto (è il caso della Turchia), alle violazioni dei diritti del lavoro (è il caso della Cina: pensate che gliene freghi qualcosa ai papaveri del Wto se ogni anno muoiono sul lavoro 8-9 mila minatori cinesi? Oppure se in Pakistan o in Albania lo sfruttamento del lavoro minorile non fa neppure scandalo), alle devastazioni dell’ambiente in nome del dio profitto. Lo strapotere delle multinazionali Lo strapotere delle multinazionali arriva a cancellare il ruolo degli stati, modificandone orientamenti, abitudini, leggi. A imporre le nuove regole agli stati – quelle della globalizzazione neoliberista – sono per interposta multinazionale i grandi organismi finanziari e del commercio. Gli interessi economici, sociali e militari degli Stati Uniti sempre più coincidono con quelli delle multinazionali. Ma questa sorta di pensiero unico non è in grado di governare il mondo come ci aveva promesso dopo la fine del bipolarismo per autodissoluzione di uno dei due blocchi. Le twin towers e il crack argentino sono soltanto gli ultimi due esempi del fallimento di un modello economico criminale che pretende di imporre ogni libertà di movimento per i capitali e vietare quelle delle persone, dei lavoratori. Questo hanno capito gli operai statunitensi della Afl-Cio che il mondo ha imparato a conoscere a Seattle, oppure quelli brasiliani della Cut che hanno un ruolo determinante a Porto Alegre, o infine quelli italiani della Fiom che hanno avuto il coraggio di scendere in piazza a Genova e mescolarsi con il popolo no-global, farsi popolo no-global. La presenza dei lavoratori, almeno di alcune loro avanguardie e dei sindacati più aperti e rappresentativi, nel «movimento dei movimenti» che si batte contro la globalizzazione liberista non è un tradizionale gesto di solidarietà con i giovani che hanno rimesso in movimento idee e persone in tutto il mondo: le prime vittime del capitalismo neoliberista sono proprio i lavoratori e le lavoratrici, i loro diritti novecenteschi, le loro organizzazioni. Quando queste vittime si rendono conto che un altro mondo è possibile e scendono in campo per costruirlo, tutti facciamo un piccolo passo avanti. Anche di questo si parlerà a Porto Alegre.

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01.02.02

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