Flessibilità è la nuova parola d’ordine. È anche uno spettro che si aggira sul mondo del lavoro, perché imposta come via obbligata per essere con i tempi, salvare economia e società, e colpa grave per il mondo del lavoro che non si adegua. Tre iniziative parlamentari, destrorse, vogliono alleggerire la legge sul lavoro in nome della flessibilità. L’Unione svizzera arti e mestieri fa pronta eco chiedendo una revisione della legge sul lavoro per ottenere più flessibilità. In concreto: portare le ore lavorative settimanali da 45 a 50 o a 54, permettere due volte la settimana tempi di riposo non superiori alle 8 ore (terminare alle 23 per riprendere il lavoro alle 7), rivedere il sistema dei giorni di congedo, oggi da accordare dopo ogni 6 giorni di lavoro. Il Consiglio federale da parte sua approva un rapporto sugli effetti della digitalizzazione sul mercato del lavoro. La parola flessibilità appare come obiettivo che si impone: occorre «mantenere la flessibilità necessaria al mercato del lavoro per gestire la svolta digitale». Poi per chiedersi «fino a che punto il diritto delle assicurazioni sociali permetta l’introduzione di nuovi modelli di lavoro». Promuove dunque un altro studio sulla «necessità di una flessibilizzazione delle assicurazioni sociali elaborando proposte in tal senso». Non sappiamo quale idea si sfornerà. Considerato il forno politico attuale, non è difficile immaginarlo. Neppure un accenno ai problemi che la flessibilizzazione già in atto (precarietà e frantumazione del lavoro, lavoro femminile penalizzato) crea alle assicurazioni sociali. A questo punto vien voglia di citare Richard Sennet (economista e filosofo) che vent’anni fa pubblicava “L’uomo flessibile”, libro divenuto famoso sui cambiamenti nelle condizioni di lavoro. Interpellato recentemente su quella sua pubblicazione, sosteneva tre cose: 1) non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale; è invece capitato che i cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro in nome della flessibilità sono stati una paralisi per la classe media lavoratrice, soprattutto la classe medio-bassa; 2) il lavoro nella sua interezza è fondamentale nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare, non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part-time o frammentato, a seconda delle necessità d’impresa, e come possibile fonte alternativa da cui trarre soddisfazione; 3) la vera questione, oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di lavoro”; la mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Discorso chiarissimo di chi aveva preavvertito e maggiormente in grado di trarre conclusioni. La flessibilità è il derivato della concezione del lavoro ridotto a merce e della gestione che ne è stata imposta. In termini concreti: il lavoratore da togliere o da mettere a dipendenza dell’evoluzione a breve termine delle cifra d’affari, dei profitti, del valore delle azioni, dei dividendi; la pressione continua sui costi del lavoro, sui salari, prioritaria preoccupazione (esasperata ora dall’introduzione del digitale o dei robot), accompagnata sempre da pronti licenziamenti, precariato, part-time, stages gratuiti; la moltiplicazione delle costrizioni, la soppressione dei tempi ritenuti “improduttivi”, la prescrizione di modi operativi standardizzati-robotizzati, i conflitti di lavoro definiti come “conflitti personali”, il ricatto immancabile della dislocazione d’impresa. Modi e strategie diffusi e sistematici per isolare il lavoratore, svuotare il diritto del lavoro, ridurre l’uomo a un mezzo e non a un fine.
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