Reddito

Il lavoro non basta, ci sta dicendo chiaramente il mercato: lo dimostra il collasso dei redditi. L’illusione che bastava tirarsi indietro le maniche per avere un’esistenza dignitosa e partecipare alla vita pubblica è franata. Qualcuno deve avere barato. Si torna così a sognare la città ideale, la città utopica, una società dove ci sia posto per tutti partendo proprio dal concetto di lavoro. O meglio, separando il concetto di reddito da quello del lavoro. In Svizzera si vota per la prima volta sul “reddito di base incondizionato” ed è un rovesciamento culturale epocale.  

All’inizio fu maledizione divina: «Con il sudore della tua fronte guadagnerai il pane». I privilegiati se ne lavarono le mani perché si sentirono salvati: scampato il pericolo, schioccarono fruste e spararono colpi nella carne per ricordare a quei maledetti, che esisteva una punizione da espiare. La gran massa non aveva il tempo per filosofeggiare e stava piegata a sgobbare in una vita che concedeva come unica grazia la morte. Le forche, le carestie, i crimini per una pagnotta, la fame, la povertà.


La storia poi, si sa, si annoia a raccontarsi sempre la solita manfrina e a un certo punto arrivò il contrordine. Qualcuno invocò “der Beruf!”, il lavoro, si inginocchiò a esso e con la rivoluzione protestante si rovesciò il suo significato: il lavoro si era trasformato in un’attività nobile e chi non si dava da fare era un cialtrone, diavolo!, moralmente condannabile. Come non ricordare quel beffardo “Arbeit macht frei” simbolicamente posto all’entrata di un campo di lavoro-annientamento?


Certo, il lavoro ha permesso all’ingegno umano di dare vita a imprese ardite e di costruire civiltà e pensieri e a molti uomini e donne di realizzarsi ed emanciparsi. In questo senso il lavoro è stato strumento di inclusione sociale e forse per qualcuno di riscatto. Basi sulle quali il diritto borghese si è modellato ponendo al centro della propria costruzione giuridica il diritto di proprietà, che ha finito per essere il fondamento dell’ordine sociale. L’utopia veicolata stava nella possibilità per tutti i cittadini di divenire proprietari: lo strumento per accedere a questo diritto era costituito dal contratto e, conseguentemente, dal libero scambio in un mercato di uguali.
Scusate, ma non crediamo sia andata proprio così: il mercato  liberista si è dimostrato sostanzialmente sanguisuga. Il presente evidenzia l’irrazionalità dell’ organizzazione economica che miete vittime ovunque: disoccupati, interinali, precari, mancanza di entrate sufficienti anche per chi lavora a tempo pieno con la prospettiva di pensioni che non sfameranno.


Non è certo questo un manifesto contro il lavoro: non siamo blasfemi, non pretendiamo di sostenere che la pretesa dignità del lavoro sia un’invenzione dei ricchi per tenere i poveri al guinzaglio, tantopiù che siamo pubblicati da un giornale sindacale, il quale lotta per l’impiego e ha profondo rispetto del lavoro e dei lavoratori. Vogliamo sollevare la riflessione sulla questione dello strumento del sostentamento degli individui che, ricordiamo, per i sindacati resta comunque principalmente legato al frutto del proprio lavoro.
Il dibattito sollevato dall’iniziativa popolare sostenuta da 126 mila firmatari sul “reddito di base incondizionato” obbliga anche il sindacato a ragionare sulla questione.


Incontriamo Donato Anchora, di Tirbi, l’associazione “Ticino reddito di base incondizionato”, che si occupa di fare campagna nel nostro cantone.
L’iniziativa chiede il versamento mensile di un reddito universale di circa 2’500 franchi per adulto senza contropartita. Senza condizioni. Città ideali, città utopiche: è una provocazione? Non vi ritenete audaci nella vostra proposta?
Per nulla, anzi pensiamo di essere agganciati alla realtà. Siamo convinti che sia paradossalmente l’unico mezzo per salvare il lavoro e rendere la società davvero inclusiva con cittadini non più ricattabili dal mercato come avviene oggi. Non si mette in discussione il concetto di lavoro, ma si intende separarlo da quello di reddito. È in questo snodo che sta la novità, la potenza e l’essenza del messaggio. Certo, è un cambiamento di paradigma e del metro con cui si valorizza il lavoro: non più valore monetario, bensì considerato in base alla sua reale utilità per la comunità.


È un tentativo di ridistribuire altrimenti la ricchezza?
Non ha una valenza ideologica, se è questo cui si riferisce, anche se il sistema da noi prospettato favorisce l’uguaglianza e una ripartizione del potere più equilibrata. Certo, siamo convinti che la ricchezza esista (del resto produciamo più di quanto possiamo consumare) e sia un’eredità ricevuta dalle generazioni passate di cui dobbiamo poter godere. Il precariato di tanti lavoratori non è accettabile in quanto non giustificato dalle reali condizioni di mercato. Un diritto si guadagna per le generazioni future e il diritto in questione è quello di liberare le persone, dando loro la reale possibilità di decidere di sé e della propria vita.


Al di là delle questioni della sostenibilità economica del reddito universale per le finanze pubbliche, vi si potrebbe obiettare di chiedere allo Stato di fare da balia ai cittadini...
Lo Stato ne gioverebbe perché sarebbe snellito nel suo apparato: il reddito di base rimpiazzerebbe le assicurazioni sociali attuali. Non si tratta di venire meno alle responsabilità individuali, né si invoca una società senza lavoro, ma più sensata. Si tratta di favorire una società del sapere, delle relazioni umane e soprattutto più democratica. La funzione principale del reddito di base è garantire il minimo vitale, permettendo al singolo di costruire la propria esistenza secondo interessi, attitudini e passioni senza il limite del reddito che sappiamo essere in molti casi applicato arbitrariamente, oltre che un ricatto sociale. Ora, tanti lavori utili per la società – come ad esempio il personale di cura – sono sottopagate rispetto al loro contributo, altre sovrastimate e tanti mestieri inventati a tavolino per occupare le persone. Vogliamo mettere ordine, trovando una formula diversa da quella del capitale e applicata dai poteri forti? Il vero potere è il controllo sul nostro tempo attraverso quelle otto ore di lavoro che ci vengono imposte.

Pubblicato il 

27.08.15
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