Il lavoro è sofferenza

I risultati delle recenti votazioni sono avvilenti e sconcertanti. C’è da chiedersi come si sia potuta creare così tanta indifferenza, così tanta incapacità individuale e collettiva nel percepire la condizione di sofferenza che accomuna i disoccupati e i nuovi dannati della terra. Come è possibile che il cinismo blocheriano metta così facilmente radici, come è possibile che il realismo economico l’abbia vinta sulla compassione per chi è stato messo ai margini? C’è da domandarsi come abbia potuto crearsi nello stesso tempo così tanto consenso e così tanta rassegnazione di fronte alle ingiustizie sociali che ci toccano in prima persona, così tanta incapacità di difendere sia noi stessi che i nostri simili dalle violenze del neoliberismo. Eppure in questi ultimi decenni - ce lo confermano per il nostro paese i dati forniti nel corso della giornata di studio “Lavoro e salute” organizzata dal Dipartimento ticinese della sanità e della socialità dedicata alle conseguenze dei nuovi modi di lavorare e della crescente precarizzazione del mercato del lavoro sulla salute fisica e mentale - le sofferenze dovute al lavoro o alla sua perdita non sono diminuite, ma si sono viceversa moltiplicate e aggravate. Una possibile risposta ce la dà lo psichiatra e psicoanalista francese Christophe Dejours, che è stato più volte citato nel corso della suddetta giornata di studio per l’importanza della sua riflessione teorica e per l’attività che svolge da 25 anni (*). Dejours dice che per capire come abbia potuto crearsi così tanta tolleranza sociale verso la sofferenza dei disoccupati e dei nuovi poveri, insieme con così tanta inerzia di fronte alle ingiustizie subite, in un mondo che abbonda di ricchezza materiale, occorre avere conoscenza della sofferenza sul lavoro. Si tratta cioè di andare a vedere cosa succede a tutti quei sentimenti come la paura e la vergogna che proviamo nel nostro lavoro, e che sono diversi per uomini e donne. In questi decenni si sono come erosi tutti gli spazi e le occasioni in cui la sofferenza provata sul lavoro potesse essere detta e ascoltata come qualcosa di non banale. Le responsabilità del mondo sindacale Una parte di grave responsabilità va alle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra che, quando non lo hanno osteggiato apertamente, hanno perlomeno trascurato il tema della soggettività. Invece la soggettività è stata ben al centro degli interessi e delle pratiche imprenditoriali. Concetti come risorse umane, cultura d’impresa, piani di crescita e via dicendo hanno delineato un nuovo linguaggio: l’unico linguaggio legittimato a parlare di soggettività. Dai discorsi sono però spariti i soggetti in carne ed ossa e cioè i lavoratori insieme con la loro sofferenza. Si è detto per esempio che il lavoro è diminuito, quando invece è aumentato cambiando la sua intensità e la sua dislocazione. E dai discorsi è sparito quello che Dejours chiama il “reale del lavoro”. Per caratterizzare un’impresa non si parla ormai più della sua produzione ma della sua gestione organizzativa, del suo management. La disoccupazione e la crescente precarizzazione del lavoro hanno inoltre creato un clima sfavorevole alla esplicitazione della sofferenza individuale sul lavoro. Ci si vergogna a parlare della propria sofferenza, generata per esempio dalle nuove tecniche di gestione del personale, quando altri stanno peggio; oppure si esita a rendere pubblica la propria sofferenza e a mobilitarsi perché si incontra la disapprovazione sociale. La minaccia di precarizzazione e il rischio di esclusione generano paura, una paura che ha un ruolo centrale nel favorire atteggiamenti di obbedienza, se non di sottomissione. Una paura che finisce per separare e contrapporre la sofferenza di chi il lavoro ce l’ha alla sofferenza - diversa- di chi il lavoro non ce l’ha. La paura di risultare inadeguati e incompetenti fa sì che si metta a tacere la propria sofferenza per poter reggere nelle condizioni di lavoro date. Si tratta di sbarazzarsi anche della percezione della sofferenza degli altri perché questa si rivelerebbe una ulteriore sofferenza e quindi un intralcio nei propri sforzi di resistenza. Questo ci fa capire molto sulla crescente tolleranza della sofferenza e delle ingiustizie. La difficoltà di poter esprimere ed elaborare la propria sofferenza sul lavoro rende il soggetto tendenzialmente incapace di riconoscere e accogliere la sofferenza degli altri. Manager e lavoratori la stessa virilità Per sofferenza non si deve intendere solo quella che si può subire se per esempio si è sottoposti a un pericolo o a una minaccia, ma anche quella sofferenza che si patisce per la sofferenza che in prima persona si infligge agli altri, e cioè una sofferenza etica. Nelle attuali “normali” condizioni di lavoro, definite dai principi del moderno management, prima o poi quasi tutti finiamo per commettere atti che giudichiamo moralmente riprovevoli: si è per esempio ingiusti verso i subordinati, oppure semplicemente si è sleali con i propri colleghi. Come diventa allora possibile accettare, tacitandola, tanta sofferenza subita o inflitta, fare i conti con la paura insieme con il proprio senso morale offeso e nello stesso tempo continuare a essere lavoratori produttivi e collaboratori zelanti ? Si mettono all’opera strategie di difesa, individuali e collettive, risponde Dejours, che ci consentono di assumere e di sopportare ciò che altrimenti risulterebbe insopportabile. Negli uomini il richiamo alla virilità, una virilità socialmente costruita, ha un ruolo centrale. È virile chi sa resistere al dolore e alla sofferenza propria e che non si commuove per la sofferenza altrui. È virile chi sa restare impassibile di fronte alla paura propria e degli altri, chi ha il coraggio di infliggere la sofferenza agli altri perché necessaria, (in una università parigina, racconta emblematicamente Dejours, c’è una specializzazione postlaurea in “Direzione delle risorse umane, opzione licenziamento”). Attraverso la virilità la sofferenza nel lavoro può trasformarsi in sofferenza messa al lavoro. La virilità è paradossalmente all’opera a ogni livello della gerarchia lavorativa: significative sono le strategie di difesa degli operai edili e quelle dei manager. Gli operai edili per far fronte alla paura dei rischi che devono affrontare arrivano ad allontanare la percezione stessa del rischio facendosene gioco: si lanciano sfide, per dimostrare di non avere paura, che possono arrivare ad aggravare il rischio. I manager devono far i conti con la vergogna per le decisioni moralmente vili che si assumono e per i discorsi menzogneri dei quali di fanno promotori: si arriva allora al punto di organizzare gare per dimostrare il proprio cinismo, e nel fare il “lavoro del male” ci si spinge ancora più in là di quanto venga richiesto. La dimostrazione di virilità è fondamentale nel determinare i comportamenti ma è nascosta da quella che Dejours chiama ideologia del realismo economico. Non si dice apertamente che ci si rende capaci di infliggere la sofferenza agli altri per il timore di non essere virili e di essere esclusi dal gruppo, ma si dichiara invece che ci vuole il coraggio di compiere degli atti necessari per l’efficienza e la qualità del lavoro. In nome della ragione economica e del bene pubblico, la viltà, la menzogna e il cinismo si trasformano in senso di responsabilità.. Diventa allora sempre più necessario nominare questa realtà di sofferenza, dare parola alla paura e alla vergogna. Per questo l’interesse dei ricercatori e degli studiosi è un aiuto importante ma che non può tuttavia sostituirsi alla presa di parola in prima persona. Importante è il difficile impegno di ognuno nel cercare le parole giuste, che hanno il potere di dare inizio a una trasformazione. Dalle pratiche di narrazione delle donne sappiamo che occorre trovare qualcuno a cui raccontare. Occorre cioè riannodare relazioni, non strumentali, capaci di rendere possibile la narrazione e capaci di accoglierla. * Il testo di Dejours “L’ingranaggio siamo noi”, al quale si fa qui riferimento, è pubblicato in traduzione italiana da Il Saggiatore

Pubblicato il

13.12.2002 04:30
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