Il lavoro (l’occupazione) è spesso assunto dalla politica o dagli ambienti economici-padronali come pretesto per avversare e combattere proposte o iniziative o referendum che vogliono mutamenti legislativi più equi o più sociali o persino per giustificare spese ritenute improprie. Se ne è avuto un esempio recente con la votazione sull’imposta preventiva o si può averne un altro con l’ingarbugliato contratto-acquisto degli aerei americani F-35A. Nel primo caso, abolendo l’imposta (dicevano) si rafforzava la competitività economica svizzera e si salvavano posti di lavoro. Nel secondo caso, ritardando l’acquisto, si mandano all’aria gli affari di compensazione (offset policy) o l’assegnazione di commesse alla Svizzera, promesse dagli americani (di cui un 5 per cento del valore previsto andrebbe anche alla Svizzera italiana!) e quindi... lavoro, occupazione. Lavoro o occupazione diventano di botto un “valore” (e non più solo un costo), assumendo però la funzione del “ricatto”. Che dovrebbe tradursi in senso di colpa se non capisci o non ci stai. L’inflazione (o rincaro generale dei prezzi), per i motivi che si sanno, ridiventa ovunque problema. Si sfodera quindi la politica monetaria tradizionale e cioè: restrizione del credito e aumento accelerato del costo del denaro o dei tassi di interesse. Sembra quasi che ci sia una sorta di sfida al rilancio tra le Banche centrali, tutte ad imitazione della Federal Reserve (la banca centrale americana, che parla e decide per tutti), nel dimostrare chi è più intransigente nella lotta all’inflazione. O nel riprendersi in mano la politica monetaria “ortodossa”, dopo anni di accomodamenti che hanno giovato soprattutto...all’inflazione della finanza, ma di cui nessuno parla. Si ignorano gli effetti a catena dell’accumulo di quelle decisioni. Oppure non si tien conto che adottare una stessa politica monetaria al di là e al di qua dell’Atlantico, quando la situazione delle due economie è radicalmente differente, può condurre a una distruzione economica incontrollata in Europa e di riflesso in Svizzera. È però una vecchia abitudine degli europei e degli svizzeri guardarsi nello specchio e scoprirsi americani. Non hanno imparato nulla dalla crisi del 2008, creata dall’irrazionalità e dall’ingordigia finanziaria americane, propagatesi come pandemia (e di cui ha sofferto anche l’avidità delle nostre grosse banche, Ubs e ancora Credit Suisse), con un decennio segnato dalla crisi dell’euro, dalla sopravvalutazione del franco, dalle politiche di austerità, dalla stagnazione del continente. E non riescono neppure a valutare che della situazione bellica attuale (Ucraina) i grandi profittatori sono gli Stati Uniti che hanno pareggiato tutti i costi della loro energia fossile (v. estrazione petrolio dagli scisti bituminosi o gas liquido) e hanno incrementato gli affari dell’industria degli armamenti. C’è una “politica” che sta ora applicando la Federal Reserve (Fed) che rischia di imporsi anche in Europa o in Svizzera come unica via d’uscita dall’inflazione. Si attribuisce a quest’ultima come causa determinante il costo del lavoro. La Fed non fa mistero della sua dottrina e delle sue intenzioni; per far fronte all’inflazione occorre: inasprire la politica monetaria (tassi di interesse), ma anche contenere la domanda (minor credito), indurre le imprese a diminuire le offerte di lavoro o a produrre con molto meno lavoro, accettare quindi la disoccupazione (conseguenza che si definisce: “inéluctable”, ineluttabile). È la dottrina che è già in arrivo e sarà un altro ricatto.
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