Un lettore comune fa dura fatica a comprendere due correlazioni che vanno per la maggiore. L’una dice che se realizzi utili, ma ne realizzerai di più dislocandoti in un paese dell’Est europeo dove la manodopera costa meno, puoi licenziare, chiudere, spostarti, magari adducendo la scusa che il franco forte ha la sua colpa. È capitato nelle ultime settimane per almeno tre industrie svizzere. L’altra è ancora peggiore perché svela il meccanismo perverso che ci domina da anni. Prendiamo un esempio concreto: la grande banca Ubs in nove mesi genera un utile di 5,25 miliardi di franchi (nell’analogo tempo dello scorso anno erano 2,6). Eppure, il giorno dopo questa notizia, il responso della borsa è negativo e l’azione Ubs cade del 4,25 per cento. Si attendeva di più. Si rassicura: la massima parte dell’utile finirà comunque in dividendi. Non è un caso unico. Se ne potrebbero citare altri. Tutti fondati su due principi: la performance deve essere sempre esplosiva; il ciclo economico (quest’anno può andare meno bene dello scorso anno, anche perché lo scorso anno è stato straordinario) non esiste o se esiste non conta niente. Una notizia quasi contemporanea alla precedente, che forse sarà sfuggita a molti, è che nel terzo trimestre di quest’anno le “grandi” (majors) del petrolio (Exxon, Shell, BP e Chevron) hanno subito un tracollo, tanto da finire nelle cifre negative (sotto di 7 miliardi la Exxon). È la prima volta che capita nella storia per un’attività che di solito genera utili da capogiro. Qualcosa ci si poteva aspettare. Sembra ormai che tutto congiuri contro il petrolio, grande inquinatore. L’informazione che interessa è però un’altra: quelle stesse “majors” (con altre minori), si sono affrettate ad annunciare che, nonostante i risultati, non ci saranno incidenze negative sull’ammontare che intendono versare agli azionisti, sia sotto forma di dividendi sia sotto forma di riacquisto delle azioni. Anche se, per mantenere questa promessa, fossero costrette a vendere qualche bene oppure a ricorrere al prestito. Intendiamoci: non è qualcosa che capita una volta tanto, per rassicurare. È sistema. Lo scorso anno le cinque grandi del petrolio hanno chiesto crediti per 20 miliardi di dollari, hanno ridotto gli investimenti di 30 miliardi, ma hanno distribuito 70 miliardi come l’anno precedente, nonostante risultati già in fase calante. D’accordo, mi si dirà che questo, tolto dalle ultime notizie, è un esempio estremo. Sarà, ma è il paradigma entro cui si muove la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia. Da cui, in termini semplici, saltano fuori almeno quattro comportamenti devastanti per l’economia e per i lavoratori. Primo: la priorità assoluta è di rendere felice l’azionista, anche perché in tal modo ne guadagna pure il manager (pagato in parte anche in azioni, con grossa sottrazione fiscale). Secondo: c’è chi ha fatto il calcolo che se le società finanziarie, avessero dovuto tener conto della parte degli utili da destinare al rinnovamento delle attrezzature produttive, come sarebbe normale in un’economia reale sana, dal 2008 in poi dovevano versare in media ogni anno agli azionisti una trentina di miliardi in meno. Terzo: se nell’economia c’è un rischio (supponiamo euro-franco), quello va assunto non tanto dagli azionisti ma dai lavoratori (licenziamenti, pressione sul costo del lavoro per ottenere maggiori profitti, guadagni di produttività non distribuiti ai lavoratori, delocalizzazioni). Quarto: la finanziarizzazione dell’economia, attraverso anche i nostri fondi pensione che partecipano sempre più al capitale delle società non finanziarie pretendendo alta redditività, esercita innegabilmente un effetto depressivo sul sistema produttivo, quello che stiamo subendo (anche con disoccupazione o minor reddito da lavoro distribuito).
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