Un’altra corsa contro il tempo per salvare, a suon di milioni dei contribuenti, un altro colosso dell’economia. È quello che sta accadendo per Swiss Dairy Food, il gigante industriale dei prodotti derivati dal latte, che dev’essere smembrato e venduto a pezzi per evitarne il fallimento. Ed è un altro grave rovescio collezionato dai manager svizzeri, i cui costi si ripercuotono pesantemente sui contribuenti, sugli azionisti, sui lavoratori del settore e sui contadini. All’origine di questa crisi, come delle altre che l’hanno preceduta e la seguiranno, c’è la liberalizzazione dei mercati, o meglio il modo insipiente con cui questa è stata affrontata da manager e politici. Già nel 1998 il Parlamento aveva sancito, con la nuova legge federale sull’agricoltura ed in vista dell’entrata in vigore degli accordi bilaterali con l’Ue, l’apertura del mercato dei prodotti agricoli, quindi anche del latte. Alcune tra le maggiori imprese del settore hanno creduto di potersi sottrarre alle conseguenze della liberalizzazione (che significa più concorrenza, quindi diminuzione dei prezzi) con acquisizioni e fusioni, puntando cioè unicamente sulla crescita delle proprie dimensioni, invece che sulla riduzione dei costi. Dalla fusione della bernese Toni Holding, numero uno sul mercato elvetico, con il gruppo Säntis della Svizzera orientale, terzo in classifica, nacque nel 1999 il gruppo Swiss Dairy Food (Sdf). Il nuovo gigante, invece di razionalizzare le proprie strutture e trattare con i contadini la riduzione dei costi di produzione della materia prima, il latte, ha aperto con questi un contenzioso sul prezzo. In altre parole, con il latte che nel resto dell’Ue viene fornito alle industrie lattiere al prezzo di 45 centesimi al chilo e in Svizzera a 75 centesimi al chilo, il gruppo Sdf non ha trovato di meglio che tentare di far pagare ai contadini questo suo maggior costo a confronto della concorrenza europea. Il consigliere federale Pascal Couchepin, ministro dell’economia, ha tentato d’intervenire a fine agosto con misure eccezionali, contenendo di 37 milioni di franchi il già programmato taglio alle sovvenzioni e prorogando il rimborso di 31 milioni di franchi di mutui concessi per la gestione delle scorte. Ma la manovra, per complessivi 68 milioni, era chiaramente insufficiente. Couchepin se n’è mostrato pienamente consapevole, dal momento che ha ridotto di appena 4 centesimi il prezzo di riferimento del latte (non vincolante per il mercato) da 77 a 73 centesimi, e nello stesso tempo ha invitato l’industria lattiera ed i contadini a mettersi d’accordo su una riduzione consistente del prezzo del latte. Un atteggiamento, quello di Berna, oggettivamente incoerente, poiché la Confederazione continua a sovvenzionare con 20 centesimi al chilogrammo il latte trasformato in formaggio. E proprio il mercato del formaggio è il punto dolente della situazione, dal momento che, con l’aumento del consumo di carne in Europa, le già scarse esportazioni di formaggio sono ancora diminuite (il 25 per cento in meno soltanto verso la Germania). L’industria lattiera, a sua volta, non ha reagito in modo giusto alla nuova situazione. In generale, invece di puntare su una produzione “di nicchia”, cioè limitata nella quantità ma di qualità tale da giustificare l’alto prezzo sul mercato europeo (un discorso, questo, che vale anche per i contadini, se non vogliono veder crollare i propri redditi), il settore continua a produrre ed immagazzinare formaggio che non viene acquistato dai consumatori. Per il gruppo Sdf, già nato e gestito male (è andato bene soltanto nel 2000, il crollo delle esportazioni sul mercato europeo è stato soltanto il colpo di grazia. In situazioni del genere, infatti, gli errori di pianificazione e di gestione si trasformano presto (spesso anche per cause esterne o fortuite) in difficoltà finanziarie che portano rapidamente al fallimento. Per Sdf una prima soluzione era stata trovata in primavera con la cessione della sua produzione formaggiera al gruppo Emmi. Ma la Commissione della concorrenza ne ha bloccato il passaggio. I mancati introiti che sarebbero dovuti derivare da tale cessione si sono trasformati in mancanza di liquidità, e quindi in una montagna di debiti (800 milioni di franchi) e nella conseguente richiesta di moratoria concordataria (l’anticamera del fallimento). Ancora una volta, come nel caso Swissair, la Confederazione, con 70 milioni di franchi, ed un consorzio di 13 banche, con altri 89 milioni, sono intervenuti per salvare i due terzi dei 1.600 impieghi del gruppo Sdf. Nel frattempo, i quattro quinti delle azioni Toni sono stati impegnati in garanzia alle banche: ciò significa che le organizzazioni dei contadini, che detengono azioni della Toni (proprietaria per due terzi dell’Sdf), vedono sfumare il valore delle loro partecipazioni azionarie. E mentre il curatore fallimentare cerca di vendere i vari comparti dell’Sdf, si annunciano licenziamenti in massa e chiusure. I più toccati saranno i centri di produzione di Gossau, nel canton San Gallo (200 dipendenti), e di Losanna (110). A rischio anche i centri dei Lucens (Friburgo) e Thun (Berna). A San Gallo sono intervenuti i sindacati Sei ed Fcta (vendita, commercio, trasporti e alimentazione) con la richiesta di un piano sociale. Ad Ostermundigen (Berna), i lavoratori dell’Sdf hanno protestato per la disdetta, da parte dell’impresa, del contratto collettivo di lavoro. Ovunque, nelle aziende a rischio del gruppo, si chiede che la Confederazione disponga per i lavoratori gli stessi “paracadute” approntati in favore dei contadini. Come finirà? Male, probabilmente, per un sacco di gente che ci rimetterà il posto di lavoro, o parte dei propri redditi. Rimane soltanto la speranza, ancora una volta, che impresari, manager e politici sappiano trarre da questa vicenda la giusta lezione: l’avventurismo in economia non paga; il neoliberismo selvaggio provoca soltanto guasti; fusioni ed acquisizioni, se non sono condotte con criteri economici e lungimiranti, si traducono in colossali fallimenti; ciò che occorre è spirito innovativo, unito ad onestà e laboriosità: le qualità che hanno fatto prospera l’economia elvetica.

Pubblicato il 

11.10.02

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