Il jeans è nudo

Indumento intergenerazionale, i jeans sono uno dei capi più diffusi nella storia del vestiario. A colpi di saldi, offerte di ogni tipo, le marche si contendono il mercato. Ma c’è chi, da un’altra parte del mondo paga un prezzo molto alto. Inconsapevoli, indossiamo elemento frutto di politiche economiche generatrici di sfruttamento e inquinamento (vedi riquadro). Per contro – piccole isole a lenta espansione – l’esperienza di Petra Caligari e Christine Bucher. La loro società, Ethix, con sede a Caslano, vuole essere la dimostrazione che si può essere produttivi, concorrenziali, fare delle cose belle nel rispetto dell’uomo, della sua dignità, della qualità di vita e dell’ambiente. «and trade is fun for everyone» (e commerciare è divertente per tutti). Più che uno slogan, la frase che pubblicizza la Ethix, è il manifesto di un modo nuovo di intendere la produttività e il commercio. La storia di Petra e Christine racconta di una visione economica che combatte storie di degrado umano e ambientale come quelle raccontante dai due giornalisti del «The Guardian». Da quando esiste e sotto la spinta di cosa e di chi è nata la vostra società? Mi trovavo in Messico – racconta Petra Caligari – per conto di una ditta di torrefazione di caffè basilese. Si tentava di scovare sempre nuove nicchie di mercato al caffè biologico del commercio equo. Nello stato di Oaxaca, dov’ero, ho visto una fabbrica di jeans costruita dai produttori di caffè per dare lavoro alle figlie dei piccoli produttori locali. Ecco il mezzo per convogliare i giovani verso il commercio equo e i prodotti biologici! mi son detta. A quel punto avevo le idee, l’entusiasmo, ma non sapevo come tradurle in pratica. Fortuna, allora, che ho conosciuto Christine Bucher cosicché la mia creatività ha potuto avere un supporto solido. Lei conosce le leggi del mercato, è la manager della situazione. Insieme ci completiamo, un po’ come «yin e yang». Tanta tenacia e buona volontà ha fatto sì che oggi la società «Ethix» esista. All’inizio, cioè per poco più di un anno, ci incontravamo ogni settimana per studiare un piano di marketing e vedere quali possibilità concrete vi erano per dare avvio al nostro progetto. Il problema consisteva nel trovare un punto di collegamento fra caffè e jeans. Lo scorso 15 maggio l’idea si è concretizzata. Sia ben chiaro noi non produciamo beni, fungiamo unicamente da canale di distribuzione, da ponte tra i produttori e i consumatori. Garantiamo che i prodotti che noi immettiamo sul mercato rispondano a dei criteri ben precisi, che poi sono quelli del commercio equo. Tre sono i prodotti lanciati da Ethix: il caffè, i jeans e i «concetti regionali». D’accordo per i primi due, ma che prodotto sono i «concetti regionali»? Etico secondo noi non significa solo distribuire un prodotto bio-Max Havelar o del Sud del mondo ma anche valorizzare un prodotto del luogo in cui vivi. Far sì che il consumatore, a parità di prodotto, prediliga quello regionale piuttosto che quello che arriva da lontano e che presuppone un lungo viaggio e tutti gli svantaggi ecologici che ne derivano (trasporto aereo quindi inquinamento). Vi siete dati una sorta di codice con dei criteri ben precisi a cui rispondere. Fra questi la trasparenza. Come si fa però a garantirla? Con le nostre forze e la nostra struttura limitate non siamo in grado di creare nuovi marchi. Per il momento lavoriamo con realtà già esistenti (Max Havelar, Caritas svizzera, ecc...). Crediamo che questi organismi siano una garanzia di per sé anche perché poggiano sempre su piccole aziende a misura d’uomo dove il controllo del rispetto delle regole è più facile. È già successo che ci abbiano chiesto di «piazzare» dei prodotti farmaceutici privi dei requisiti da noi richiesti e noi li abbiamo rifiutati. Credete che, allo stato attuale, la vostra strategia porterà davvero alla diffusione di un mercato nuovo basato sul rispetto dell’uomo e delle sue condizioni lavorative? Perché questo avvenga è necessario proporre un prodotto di qualità e concorrenziale rispetto agli altri prodotti esistenti sul mercato. Prodotti belli, fatti bene e buoni sotto tutti gli aspetti. Effettivamente riguardo ai prodotti definiti «etici» si attribuisce – come giustamente fate notare – un non so che di «polveroso» dove la parola «alternativo» viene associato al non elegante, dimesso, ecc… Come pensate di scardinare questo pregiudizio? Credo che i giovani possano contribuire non poco a che si muti atteggiamento riguardo ai prodotti etici. Secondo noi è molto importante arrivare a loro e questo significa offrire un prodotto che li attiri. L’ideale sarebbe far sì che tutte quelle persone che non s’interessano alle condizioni di lavoro o all’ambiente arrivino a preferire i prodotti etici agli altri perché li ritengono belli e quindi sono orgogliosi di possederli. Quando si compra un capo d’abbigliamento la prima cosa che si nota è se è bello, se è di buona fattura, la qualità della materia: non se è etico. Crediamo che non si debba lavorare sui sensi di colpa di una persona ed è importante che si superi questo modo di agire e pensare. Cosicché i prodotti etici diventino anch’essi prodotti concorrenziali a tutti gli effetti. Ma non starete prospettando un mercato elitario? No non lo sarà più di tanto. In Olanda, dove questo tipo di mercato sta funzionando, i jeans cosiddetti etici vengono venduti nelle migliori jeanserie delle città. Così i giovani li acquistano come un prodotto esclusivo. La pubblicità e il passaparola fanno il resto. Ci sono specialisti del ramo – intendiamo delle migliori marche di jeans in circolazione – che si sono messi insieme dando vita ad un team che ha prodotto tutta una collezione davvero bellissima. Come è stata accolta in Svizzera la vostra società? Siamo le prime nel nostro Paese ma fin dall’inizio si sono fatte avanti delle persone disposte a fornirci degli indirizzi. Abbiamo ricevuto sostegno da diverse parti, anche finanziario, il che non è scontato. Siamo davvero contente dell’accoglienza che riceviamo, non solo in tutta la Svizzera ma anche in Italia. Di solito quando presentiamo le nostre idee riscontriamo sorpresa ed entusiasmo. E crediamo che queste siano due elementi basilari nell’impalcatura del mercato etico. Trame di degrado umano Vestire un mondo di sfruttamento. Il quotidiano inglese «The Guardian» riportava tempo fa l’incredibile storia di un paio di jeans. A raccontarla i due autori Fran Abrams e James Astill che, tappa per tappa, ricostruiscono il lungo giro attraverso cui è passato uno dei capi più diffusi al mondo. Nel caso in questione i jeans erano un modello della Lee Cooper Lc10, acquistati a 50 franchi in un grande magazzino dell’est dell’Inghilterra. Ma dove sono stati fabbricati? I dove sono talmente tanti che collegandoli tutti arrivano a coprire la bellezza di 65 mila chilometri. Un iter che spesso tocca mezzo mondo. La prima tappa effettuata dai due giornalisti-investigatori è a Ras Jebel, nel nord della Tunisia, dove in una fabbrica della ditta Lee Cooper circa 500 donne lavorano ad un ritmo febbrile. Ognuna a produrre, a ritmo serrato e con il corpo teso dallo sforzo, un segmento del prodotto: chi le tasche, chi le cuciture laterali e chi gli orli. Il tutto per un salario di 220 dinari netti al mese (280 franchi) che fa meno di 1.50 franchi l’ora (più del salario minimo che è di 1.20 franchi lordi l’ora e meno della media dell’industria pret-à-porter tunisina che si aggira sui 2.30 franchi l’ora). Abbiamo detto «prima tappa», in realtà, specificano gli autori del reportage, si tratta della tappa conclusiva del lungo viaggio a cui viene sottoposto il jeans. La prima cosa infatti, quando si parla di un capo di vestiario, da prendere in considerazione è la provenienza della materia prima. La stoffa in questione, blu scuro, è il denim Kansas che giunge alla fabbrica di Ras Jebel dopo un viaggio di circa 1000 chilometri e proveniente dalla Italdenim di Milano dove il cotone viene filato, tessuto e tinto con un colore, l’indaco, prodotto artificialmente a Francoforte (Germania), 500 km più a nord del capoluogo lombardo. Quindi viene spedito a Ras Jebel dove il tessuto viene tagliato, cucito e trasformato nel tessuto che conosciamo, grazie a delle enormi lavatrici dove si utilizza della pietra pomice estratta da un vulcano della Turchia. Per trovare il bandolo della matassa, dove viene prodotto il cotone, i due autori si recano nell’Africa dell’ovest, nel Benin. Il Benin, segnato dalla corruzione e da una cattiva gestione governativa, è un paese poverissimo. Qui le coltivazioni del cotone la tecnica moderna si riduce all’utilizzo di pericolosi pesticidi e fertilizzanti, proibiti ormai nei paesi ricchi ma ugualmente esportati dalla fabbrica francese Calliope. Nella stagione del cotone del 2000, fra i coltivatori sono morte circa un centinaio di persone. Tutte per avvelenamento. E ai rischi della salute si sommano quelli di un raccolto minacciato dagli agenti atmosferici. Una stagione cattiva ed ecco che il coltivatore si ritrova con un guadagno di 40 franchi per una tonnellata e mezzo di cotone: l’equivalente di una «gamba» di un jeans Lee Cooper LC10… Così per non rimetterci un coltivatore deve, spesso, far lavorare gratis membri della propria famiglia. Altro dato inquietante riguarda la manodopera infantile. La Fondazione delle Nazioni unite per l’infanzia (Unicef) rilevava che dal Benin parte un forte traffico di manodopera infantile verso i paesi vicini più ricchi. Intanto il giro si allarga. I fili per le cuciture vengono prodotti a Lisnaskea, nell’Irlanda del Nord (ma anche in Ungheria e Turchia), tinti in Spagna e messi in bobina a Tunisi. I denti delle chiusure a lampo sono fabbricati in Giappone, mentre i bottoni e le piccole borchie vengono prodotte in germania con ottone e una parte di zinco e rame proveniente dall’Australia e dalla Namibia. Qui, nelle miniere molte persone sono state avvelenate dalle esalazioni all’arsenico. Tanto che dopo un’inchiesta, una di queste miniere è costretta a chiudere, lasciando senza lavoro centinaia di persone. Malgrado tutto, la gente si augura che la miniera riapra perché di fronte alla fame, i problemi dell’ambiente e della salute appaiono come un lusso. mapi

Pubblicato il

11.01.2002 04:30
Maria Pirisi