Il grande uomo che aveva paura di morire

I bambini e i ragazzi sanno che c’è la guerra e che questa guerra non è lontana come dicono le mamme e che non sarà così breve come dicono i papà. Stanno cioè vivendo un’esperienza che li avvicina più ai nonni che ai genitori che non possono sapere che cosa vuol dire sentirsi piccoli di fronte alla grande paura. Nella generale perdita di controllo delle reazioni politiche e private (chi non ha paura, in questo periodo, di parlare con amici carissimi nel timore di sapere che cosa pensano di questi conflitti?) forse prendere in mano un libro o consigliarlo o leggerlo con i propri figli può servire a prendere un piccolo tempo di riflessione per ripensare a cose già successe a chi è vissuto prima di noi per non farci schiacciare dal senso di ineluttabilità che mortifica e spesso mercifica. Si potrebbe cominciare con una di quelle storie che rivoltano l’umanità come un calzino e che hanno il grande merito di raccontare come anche l’uomo più forte, più imbattuto, più potente abbia paura di morire. A cominciare dal possente Gilgamesh che pur di diventare immortale sconvolge come un turbine l’universo mesopotamico seminando il terrore intorno a sé fino a toccare con un dito l’oggetto del suo desiderio. Cominciare da Gilgamesh ha due vantaggi: il primo consente di prendere la storia davvero alla lontana, scivolando ben oltre la Bibbia, il secondo offre l’occasione di calcare territori evocativi sul piano geopolitico, luoghi di culture magnifiche su cui il vento della storia non ha mai smesso di distribuire la sua polvere. Gilgamesh è naturalmente un eroe, un semidio, re di Uruk che, nella cartina in fondo al libro, si colloca a circa un centimetro a nord ovest di Ur, quest’ultima più familiare per i ragazzini di terza elementare o per chi legge le storie dell’Antico Testamento. Di Gilgamesh si hanno notizie fin dal 2600 a.C. ma cinquecento anni dopo già si scrivono le sue gesta in sumerico e più tardi ancora in accadico. Poi tutto il vicino Oriente ne viene a conoscenza e quindi in Palestina e presso gli Ittiti, fino a raccogliersi in versione completa nella gran biblioteca di Assurbanipal. Il secolo appena passato è stato particolarmente ricco di guerre e l’editoria ne ha tenuto conto. La tentazione di rileggere Il sergente nella neve nella recentissima ristampa, è forte poiché il romanzo è difficilmente sostituibile. Come in una preparazione materiale e spirituale alla morte, il sergente avanza mentre tutti cadono, verso la propria, personale caduta finale che potrebbe verosimilmente realizzarsi a Nikolajewka. Invece no, la fine non arriva e il lettore può inoltrarsi nel profondo della quotidianità del conflitto per capire cosa cambia dentro la persona ma anche come, tutto quel che nella vita normale aveva perso valore, può riacquistarlo nello spazio angusto della mancanza di libertà. Ancora un giorno è un racconto in cui i protagonisti sono una banda di ragazzi, nella Milano alle soglie della liberazione. Quattro maschi e qualche volta anche una femmina si ritrovano ogni giorno in cortile pronti a far danni, per fame, per noia, per voglia di crescere e di far parte della storia di una guerra che potrebbe finire se tutti facessero la loro parte. I ragazzi la loro parte la fanno fin troppo bene, la fanno sul serio, la fanno con il cuore e senza né mediazioni né cedimenti. Non tradiscono, non fanno la spia, non temono il freddo né la fame. In alto, sui ballatoi si agitano madri i cui sguardi ansiosi rimbalzano sui ragazzi che a ritmo di corsa si infilano fra i grandi, sottraggono segreti, passano inosservati fra tedeschi e repubblichini riannodano resistenze spezzate. C’è persino lo spazio per un piccolo, luminoso, dolcissimo amore che resta impigliato proprio lì, in corso Sempione, il 23 di aprile. Dal Sudamerica i postumi delle guerre civili si sedimentano in due esemplari storie di famiglia. Il giorno in cui Gabriel scoprì di chiamarsi Miguel Angel si svolge in Argentina ed è dedicato alla memoria di quelle 30 mila persone scomparse negli anni compresi fra il 1976 e il 1983, di quei 15 mila fucilati per le strade e di quel milione e mezzo di esiliati. Come tutti sanno molti bambini strappati alle madri ammazzate subito dopo il parto, vennero rapiti dai militari e messi in adozione presso famiglie amiche del regime. La storia di Gabriel-Miguel Angel è una di queste. Suo padre, il tenente di vascello Juan Carlos Rolòn è accusato di essere stato un torturatore, uno che rapiva i bambini nati dalle donne torturate. È su Internet che avviene il primo incontro con la verità. L’incubo di non essere figlio dei propri genitori ha tormentato e tormenterà in eterno le notti dei bambini alle prese con la loro identità ma qui si tratta dell’inverso, di un ragazzo pienamente felice di riconoscersi nella sua famiglia e in suo padre, al punto di non voler credere, nonostante la progressiva evidenza, alle accuse accumulate dalle abuelas di Plaza de Mayo. La violenza dei fatti travolge il ragazzo strappato alla bambagia dagli eventi che costringono la famiglia a fuggire. Ma lui deve restare, non fa più parte di quella famiglia che insidiosamente scivola via, compiendo un disconoscimento vissuto come inesorabile. La storia è scarna, scabra, disadorna, i sentimenti non sono che parole. Massimo Carlotto non ce la fa a essere Gabriel-Miguel Angel, il lettore non oltrepassa il diaframma del testo, quasi una cronaca. E di questo il lettore ringrazia l’autore, per non averlo intriso di lacrime, per non averlo buttato singhiozzante in un angolo, per avergli dato invece una storia senza romanzo. Tema in classe racconta la storia di Pedro che vive in Cile al tempo di Pinochet. Intuisce che i genitori sono contrari alla dittatura e capisce il senso della sparizione del padre e del suo amico Daniel. Pedro vorrebbe pensare soltanto al pallone ma quando in classe compare un militare e detta il tema «Che cosa fa la mia famiglia la sera», il ragazzo capisce l’inganno e scrive un testo banale. Se dicesse la verità denuncerebbe i suoi genitori. L’autore, Antonio Skarmeta è un esule, di Antofagasta, maneggia il dialogo con destrezza e il dialogo serra lo spazio, concentra la voce. L’atmosfera cupa della paura della repressione è controbilanciata dalla necessità vitale di stare uniti, di usare tutta la propria intelligenza e di avere il coraggio di difendersi. Quando la guerra finisce tutto è in grande disordine, niente è più al proprio posto, lo sanno bene i profughi che non possono più stare a casa loro perché la comunità cui appartenevano non li vuole più con sé. Viaggio controvento è la storia di Bernie, orfano di entrambi i genitori e di sua zia Carla, tedeschi di Cecoslovacchia che nell’estate del 1945 fanno fagotto perché indesiderati. L’attesa di un treno che non arriva, la difficoltà di reperire un tetto e un po’ di cibo sono fatti reali, duri, crudi ma si possono affrontare. Zia Carla è gagliarda e Bernie è curioso, insieme affrontano questo viaggio nel prolungamento della guerra le cui conseguenze sembrano non finire mai. Chi legge sa che ce la faranno perché sono due persone oneste e coraggiose che non si fanno intimidire e guardano in faccia il loro futuro.

Pubblicato il

14.12.2001 05:30
Eliana Bouchard