È ormai diventato il nostro pane quotidiano. I mass media scelgono questioni “del cuore” cui dedicare prime pagine, titoli a sei colonne e lunghi articoli. Tutti simili se non uguali, con una tendenza al pensiero unico che dovrebbe preoccuparci. Perché l’appiattimento si avvicina pericolosamente alla definizione di propaganda e perché la logica arbitraria del “chi è dentro, chi è fuori” non è detto serva l’interesse pubblico. Sono cresciuta a Roma in una famiglia di giornalisti e ricordo, ero bambina, come i miei genitori mi raccontassero qualche volta che il quotidiano per il quale lavoravano, L’Unità, avesse “bucato una notizia”. Il redattore che coordinava l’edizione del giorno successivo, quindi, non si era accorto di un lancio di agenzia di stampa, oppure il o la giornalista responsabile di un certo settore non aveva ricevuto anticipazioni dalle sue fonti. Spesso ripenso a quanto era diverso il giornalismo, quando ero figlia di cronisti. Ricordo l’odore della carta stampata di cui era impregnata casa nostra, le pile di giornali che si accumulavano con gran scorno di mia mamma, che detestava il caos. Ricordo anche che i quotidiani erano tutti diversi. Diversi nello stile, nel linguaggio; diversi per il tipo di storie che ci trovavi. E diversi per il “taglio”, cioè la lettura che proponevano di una vicenda. Oggi? Sono tutti uguali. Puoi trovare l’intervista esclusiva, certo. La storia originale. Eppure l’orizzonte si è appiattito e quanto definito notizia è oggi immancabilmente uguale per tutti. L’abbiamo visto con il giornalismo pandemico: un estenuante “copia e incolla” di comunicati stampa governativi e dell’industria. Rara l’inchiesta, assente la messa in prospettiva. Giornalismo che sfoggia la memoria di un pesce rosso – recita l’adagio, si tratta di tre secondi. E lo vediamo di continuo con i temi di politica internazionale. Il più recente esempio lo offre la tournée europea dei coniugi Biden. Le immagini costruite a tavolino dagli uffici stampa, saluti di gomito e mascherine per le foto ufficiali, nessuna precauzione per quelle di chiacchierate col calice di prosecco destinate invece alle rubriche distensive, per la serie “guardate come vanno d’accordo i leader mondiali”. La visita del presidente americano a Ginevra ha dato in pasto ai media l’incontro con il suo omologo russo. Quest’ultimo è perenne bersaglio delle accuse di violazioni dei diritti umani, come se gli altri fossero puri come gigli (vedi per esempio alla voce immigrazione e guerre medio-orientali). Diligente megafono, la stampa ha riportato il lamento di Biden sul caso Navalny, il dissidente russo diventato un cameo per i media occidentali, che lo presentano come un paladino della democrazia, dimenticando che il suo movimento è portatore di una visione nazionalista radicale, con un tocco di destra profonda. E così ci è toccato leggere che Biden avrebbe espresso preoccupazioni per l’imprigionamento di Navalny e messo in guardia Putin che se mai dovesse morire in carcere, ci sarebbero gravi conseguenze. Da che pulpito venne la predica? Gli Stati Uniti sono responsabili della persecuzione di Julian Assange. Il co-fondatore e editore di Wikileaks vive da due anni in un carcere di alta sicurezza londinese a causa della richiesta di estradizione degli USA, che lo vogliono processare in base alla legge sullo spionaggio per punirlo della pubblicazione di documenti che hanno dimostrato gli abusi americani in Iraq, Afghanistan e a Guantanamo. Alle conferenze stampa ginevrine, nessun giornalista ha chiesto a Biden se la sua amministrazione abbia per caso intenzione di invertire la rotta. È la stampa, bellezza. |