L’affare non è chiaro. Anzi, puzza. Il Palazzo della posta centrale di Lugano è stato venduto con trattativa diretta al gruppo «Garzoni» (notizia de «laRegione»). Il che significa che un tassello – e che tassello! – del settore pubblico è finito nelle mani del privato tramite procedure segrete, occulte. La cessione dello stabile verrà paradossalmente accompagnata dall’intenzione di «riprenderselo» in affitto almeno per dieci anni. A piangere è il Municipio cittadino, snobbato e scavalcato a piè pari da «Swisscom» e da «La Posta» (figlie dello smembramento delle Ptt nei due rami delle telecomunicazioni e delle spedizioni), che non avrebbero minimamente tenuto in considerazione Lugano quale possibile acquirente di un edificio comunque storico e architettonicamente apprezzabile. E pensare che le casse cittadine godono di ottima salute, probabilmente né più né meno di quelle della «Garzoni». Di qui le lacrime dei municipali per l’occasione mancata. Lacrime che assumono i toni ora delusi di Guido Brioschi, ora indignati di Giuliano Bignasca. Lo stesso sindaco Giorgio Giudici ha palesato stupore per un’operazione immobiliare che lo avrebbe, unitamente ai suoi colleghi di Municipio, tagliato fuori dai giochi. Un’operazione esordita già nel settembre 2000 e snodatasi per tanti altri mesi, durante i quali le pratiche notarili sono finite sul tavolo dell’avvocato Renzo Respini, già Consigliere di Stato e membro del consiglio di fondazione dell’Usi con Giudici. Ma allora, come è possibile che durante un così lungo periodo di tempo (circa un anno), al capo dell’Esecutivo – che di Lugano conosce anche la tasche – non sia mai giunto niente all’orecchio? Il tutto sembra ancora più inquietante se si considerano gli assodati rapporti lavorativi e d’amicizia, nati nei cantieri, fra l’architetto Giudici e la ditta Garzoni. È per questi due motivi che stupiscono le dichiarazioni del sindaco di estraneità ai fatti (la terminologia giuridica è del tutto casuale, ce ne scusiamo). «Non ne sapevo niente», dice. Un atteggiamento che pare decisamente poco credibile. Tuttavia a noi piace pensare che anche i fatti più illogici e strani – un palazzo pubblico di una città venduto agli amici del sindaco di questa città senza che lui ne venga a conoscenza – possano essere reali. Prendiamo dunque per buone le parole di Giorgio Giudici. Crediamo nella sua buona fede. Ciononostante anche in questa prospettiva, non possiamo far altro che arricciare il naso: il sindaco non conosce ciò che avviene nei quartiere urbani del centro (simili operazioni di compravendita non possono essere ignorate), il sindaco ha poco fiuto per gli affari, il sindaco non ha contatti con le grandi compagnie pubbliche (Swisscom e Posta nella fattispecie), il sindaco ha fatto perdere alla città un edificio importante, il sindaco è stato gabbato dai suoi amici della «Garzoni» (ma questa è una questione privata che non ci riguarda). Ecco perciò che il sindaco, in entrambe le ipotesi, quella ufficiale e quella sospetta, non può uscire a testa alta. Nel caso, ovviamente ipotetico, in cui sapeva dell’«affaire posta» ma tacque ai cittadini e magari agli stessi colleghi d’Esecutivo, il sindaco avrebbe agito con criteri assolutamente poco trasparenti ed immorali per una carica pubblica. Nel frattempo giungono le indignazioni del Partito socialista luganese, per bocca del suo presidente Nicoletta Mariolini: «Un servizio (posta, n.d.r.) che nonostante tutto è pubblico avrebbe potuto e dovuto rimanere in uno stabile pubblico. Il Ps di Lugano non può che interrogarsi sul ruolo della Città nell’acquisto di questo oggetto immobiliare. Se la Città non è in grado di assicurare alla sua cittadinanza proprietà di questa valenza, non si vede perché vendere anche una sola delle attuali proprietà del Comune». E ancora: «Anche prendendo per buone le esternazioni di Giudici e del resto del Municipio, non posso non interrogarmi sul mal funzionamento del mercato immobiliare. Qui non v’è stata una concorrenza aperta. Quale l’inghippo dunque?». Ma pure, nel frattempo, sono giunte le dichiarazioni, che chiamarle scuse sarebbe dir troppo, del direttore generale de «La Posta» Ulrich Gygi, durante la conferenza stampa indetta martedì 15 scorso a Lugano per illustrare la prossima ristrutturazione del servizio postale cittadino: «È vero, abbiamo mancato in sensibilità vendendo lo stabile ad un privato». Già, è fuori di dubbio. Un piccolo «mea culpa», a dimostrazione dell’insensibilità che regna sul tema delle privatizzazioni addirittura nelle elucubrazioni dei vertici delle strutture pubbliche.Un «mea culpa» presto sotterrato dal «lucente» slogan «pensare la Posta». Sotto questa confezione la posta di Loreto verrà soppressa, quella di Aldesago e Brè sostituite con un servizio domiciliare, quelle di Cassarate e Molino Nuovo traslocherranno rispettivamente al Conza e in Via Zurigo. A Ruvigliana per contro verrà ridotto l’orario di apertura, mentre a Lugano centro la Posta, in affitto, dovrebbe allargare la gomma dei servizi. Nebulosa inoltre, la questione dei licenziamenti. Forse uno, forse nessuno. Sono questi i movimenti di una strategia «manageriale» liberista che non soddisfano Angelo Zanetti, segretario del Sindacato della Comunicazione:«La riduzione degli uffici postali aumenta il disagio dell’utenza. Ritengo che unicamente attraverso una strategia non basata sul profitto bensì sulla soddisfazione delle esigenze della popolazione tutta, con migliori condizioni di lavoro e più sicurezza per il personale, la Posta ritroverà quell’immagine positiva di organizzazione e funzionalità da tutti riconosciuta. La Posta è un ente pubblico e quindi non può e non deve pensare come un privato». Certo è che, con Giudici, anche la Posta, da questa «storia», non esce a testa alta.

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18.01.02

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