Il frutto amaro

Nel 1993 recensivo per l’Encyclopoedia Universalis il libro «L’économie mondialisée»1) di Robert Reich, a quei tempi Segretario al lavoro nell’Amministrazione Clinton. In esso, Reich analizzava i profondi mutamenti intervenuti nell’economia mondiale negli ultimi trent’anni ed evidenziava la relazione esistente tra il fenomeno della globalizzazione e l’aumento delle disuguaglianze socioeconomiche a livello planetario. Ne deduceva l’urgenza di una riflessione sui fondamenti delle nostre società e di una regolamentazione del fenomeno. In quei giorni, speravo ingenuamente che l’alto carico occupato da Reich avrebbe permesso alle sue idee di influenzare le scelte politiche effettuate nelle alte sfere del potere. Ma fino ai tragici avvenimenti dell’11 settembre, malgrado gli sforzi di numerosi altri intellettuali2) – e nonostante i ripetuti scontri di piazza da Seattle a Genova dovessero almeno far supporre che qualcosa non stesse andando per il verso giusto – questa necessità di agire non era purtroppo mai riuscita a far breccia in modo convincente nel cuore dei parlamenti. Da qualche tempo, sembra invece che il dibattito politico sulle questioni di fondo stia riprendendo vita. Che sia il benvenuto! Forse, non è ancora troppo tardi. Ritorno alle origini Ma per capire le grandi sfide della globalizzazione economica è necessario riformulare il problema alla luce dei cambiamenti strutturali dell’ultimo trentennio. Nell’economia di produzione di massa del secondo dopoguerra – quella, per intenderci, in cui eserciti di operai lavoravano nelle catene di montaggio di imprese mastodontiche organizzate secondo una gerarchia piramidale – la situazione di tutti i cittadini evolveva, in generale, allo stesso modo. Il compromesso sociale tra padronato e salariati aveva alimentato un circolo virtuoso in cui gli aumenti salariali permettevano alla nascente classe media di sostenere la crescita dell’economia. Tutti i cittadini di una nazione si sentivano in qualche modo sulla stessa barca, in competizione con le barche delle altre economie nazionali. A partire dagli anni ‘70, la contrazione dei profitti sui prodotti standardizzati ha spinto le aziende a diversificare la produzione e a trasformarsi in imprese reticolari, sempre più snelle e flessibili. Dalla produzione di beni di consumo di massa, tutti uguali, siamo passati alla produzione di beni personalizzati, destinati a soddisfare i bisogni di diverse categorie di consumatori: è il regno degli specialisti del marketing, della comunicazione, della pubblicità, dell’alta finanza. Grazie alla costante diminuzione dei costi di trasporto e al boom delle nuove tecnologie dell’informazione, inoltre, capitali e documenti di ogni genere hanno ora la facoltà di spostarsi alla velocità della luce da un capo all’altro del pianeta e il mercato del lavoro è diventato mondiale. Un mercato mondiale Le imprese hanno così potuto trasferire buona parte delle produzioni meno qualificate verso i paesi in via di sviluppo. In questo modo, i lavoratori poco qualificati del Nord del mondo si sono trovati a dover competere con quelli del Sud, disposti a lavorare per una frazione del loro salario. Gli individui più brillanti e formati di ogni paese, invece, possono ormai offrire i loro servizi altamente remunerati in tutto il mondo. Solo i servizi di prossimità (venditori, impiegati di commercio, segretarie, elettricisti, massaggiatrici,…) rimangono confinati localmente. Questi lavoratori subiscono però la concorrenza delle macchine (segreterie telefoniche sempre cortesi, distributori automatici,…), degli immigrati e dei lavoratori espulsi dai settori industriali. Il loro benessere dipende in gran parte dall’andamento degli affari nei settori trainanti dell’economia3) . Le traiettorie economiche delle diverse categorie di lavoratori stanno pericolosamente divergendo, sia a livello mondiale che a livello nazionale e locale. Riprendendo l’intelligente riformulazione del problema proposta da Reich, è come se i cittadini di una stessa nazione si trovassero ora su tre barche diverse: quella dei lavoratori poco qualificati, quella dei servizi di prossimità e quella degli imprenditori e di coloro che sono in possesso delle competenze più richieste dal mercato. Così, se nel 1960 il quinto più ricco della popolazione mondiale si divideva il 70,2 per cento del Pil del mondo, mentre al quinto più povero toccava il 2,3 per cento, nel 1999, il primo quintile si aggiudicava l’86 per cento delle risorse e all’ultimo non restava che l’1 per cento. In meno di quarant’anni siamo passati da una differenza di 30:1 a 86:1. Negli Stati Uniti, dal 1975 al 1995, il rapporto tra il reddito medio dei dirigenti esecutivi di massimo livello e quello dei loro operai o impiegati poco qualificati è passato da 41:1 a 187:14). Nello spazio di una generazione, il divario è più che quadruplicato! Smantellamento sociale Malgrado l’Europa sia stata a lungo un baluardo dello stato sociale, negli ultimi vent’anni anche nel nostro continente si è proceduto al progressivo smantellamento della rete di protezione sociale e alla flessibilizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro in nome dell’efficienza e della competitività. Così, nel Regno Unito le disuguaglianze hanno ormai raggiunto livelli che, solo alcuni anni or sono, erano considerati propri dei paesi in via di sviluppo. E in tutto il continente europeo, malgrado i profitti strabilianti ottenuti dalle imprese nella seconda metà degli anni ‘90, i poveri sono ormai 50 milioni. Oltre ai problemi della disoccupazione e dell’esclusione, il fenomeno dei working poor – quella classe di lavoratori che, pur sgobbando da mattina a sera, non riesce più a soddisfare i suoi bisogni primari – è una drammatica realtà in continuo aumento anche nei nostri paesi. A volte, non basta più trovare un lavoro per uscire dall’indigenza: il mercato offre sempre più spesso posti di lavoro precari e senza copertura sociale o salari insufficienti al mantenimento di una famiglia. Purtroppo, le conseguenze di queste evoluzioni non si limitano al campo economico. Queste differenze di reddito influenzano sovente anche l’accesso a un’istruzione di qualità, alle infrastrutture sportive e di svago, ai servizi sanitari. In alcuni paesi, come negli Stati Uniti, è addirittura in atto una «secessione», una separazione fisica tra l’élite economica, che vive ormai in zone esclusive superprotette dotate di ospedali, infrastrutture e scuole all’avanguardia, e il resto della nazione che deve accontentarsi dei servizi offerti da uno Stato sempre più a corto di fondi a causa degli sgravi fiscali. Una frattura pericolosa Una profonda e pericolosa frattura percorre dunque trasversalmente le nostre società: i concetti di comunità di interessi, di democrazia e di uguaglianza dei diritti debbono essere rivalutati. Cosa vuol dire oggi essere ticinesi, svizzeri, italiani o europei? Ci sentiamo ancora tutti sulla stessa barca? Non affrontare le implicazioni etiche e politiche di questi cambiamenti, magari nascondendosi dietro all’idea cocciuta – e finora puramente teorica – che il mercato prima o poi finirà per riaggiustare tutto, sarebbe decisamente irresponsabile. Robert Reich riteneva che una formazione scolastica e professionale di qualità e accessibile a tutti fosse la chiave dello sviluppo delle società moderne. Ma possiamo realmente immaginare che l’educazione riesca da sola ad offrire a tutti la possibilità di vivere al di sopra della soglia della povertà? Ognuno di noi sa bene che i diversi talenti individuali – e, ammettiamolo pure, anche la fortuna – non sono equamente distribuiti né equamente remunerati dal mercato. L’educazione, inoltre, non può che agire nel lungo termine. Così gli analisti hanno anche offerto tutta una serie di altre possibilità d’intervento: correzione delle disuguaglianze attraverso metodi fiscali o legislativi, costruzione o ricostruzione di uno stato sociale efficiente e solidale, elaborazione di un nuovo «contratto sociale», creazione di istituzioni internazionali che affrontino globalmente i nuovi problemi economici, ecologici e culturali. Una volta evidenziate le pericolose tendenze di fondo dell’economia mondiale, il problema diventa prettamente politico. Se si troverà la volontà politica per affrontare le questioni di fondo, saremo noi, attraverso le urne, a decidere del nostro futuro. Gli spazi del dialogo Se però il dialogo non troverà spazi sufficienti, se non verrà sentita la necessità di costruire insieme un progetto comune di società, allora è probabile che i diseredati e i dimenticati della globalizzazione, nel Sud e nel Nord del mondo, facciano sentire la loro disperazione nei modi più disparati. Le nostre nazioni andranno così incontro ad una radicalizzazione dei conflitti sociali e a un futuro precario e molto insicuro… e un clima di incertezza e pericolo è anche un pessimo alleato della prosperità economica. L’economia dei principali paesi sviluppati potrà anche ripartire nella seconda metà del 2002, come asseriscono gli ultimi pronostici degli specialisti, ma non dobbiamo illuderci! Finché non verranno affrontati i problemi strutturali suscitati dalla globalizzazione, la nuova crescita rischia di essere solo una breve fuga in avanti. Forse, però, saranno proprio i venti di guerra e di terrore che spirano sul mondo ad aiutarci a trovare uno sbocco. L’entrata nell’era delle minacce globali sembra infatti segnare anche l’impossibilità – o perlomeno l’illusorietà – di una qualsiasi «secessione». Dopo l’11 settembre, sembra sempre più difficile che una minoranza privilegiata possa anche solo lontanamente sperare di sfuggire alla rabbia (giustificata o ingiustificata, poco importa) e alla disperazione del resto del mondo. Le decisioni che dovremo prendere saranno estremamente difficili e contestate, ma l’obiettivo non è secondario: ne va della qualità della nostra vita e di quella dei nostri figli. 1) Titolo originale «The work of Nations», Alfred A. Knopf Inc., New York, 1991. Per l’edizione francese Robert B. Reich, «L’économie mondialisée», Dunod, Paris, 1993. 2 ) Sono da segnalare, in particolare, i seguenti contributi: Ignacio Ramonet, «Geopolitica del caos», Asterios Editore, Trieste, 1997; Luciano Gallino, «Globalizzazione e disuguaglianze», Edizioni Laterza, Bari, 2000; Edgar Morin e Sami Nair, «Una politica di civiltà», Asterios Editore, Trieste, 1997. 3) I lavoratori del settore agricolo e dello Stato presentano problematiche specifiche che non possono purtroppo essere trattate in questa sede. 4) Luciano Gallino, ibid., p. 71

Pubblicato il

01.02.2002 02:30
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