Ormai aveva deciso: sarebbe partito per la Spagna in difesa della Repubblica. A 68 anni di distanza, il medico chirurgo Elio Canevascini, classe 1913, guarda quel giovane ventitreenne, in preda alla trepidazione, preparare in fretta e furia i bagagli. “No pasaràn” era il motto degli antifascisti spagnoli, “Non passeranno”, pensava Elio. Figlio del Consigliere di Stato Guglielmo, Elio era stato uno degli ottocento volontari svizzeri (di cui ottanta ticinesi) a rispondere all’appello. Nelle ultime canicole d’agosto del 1936 si arroventava la guerra civile spagnola, quando Elio - studente in medicina a Parigi - cominciò un viaggio senza garanzia di ritorno. Così il 20 agosto 1936 Elio scriveva ad un amico: «Carissimo Piero (Pellegrini, direttore di Libera Stampa, ndr), partirò a giorni per la Spagna con un gruppo di studenti di medicina francesi e italiani. (…)Di tutto ciò non dire niente a nessuno e specialmente ai miei. Papà Guglielmo lo avviserò il giorno della mia eventuale partenza. (…)»(1). Della sua grave decisione, mantenne all’oscuro anche suo padre (Guglielmo venne informato quando ormai il figlio era già in Spagna). Guglielmo però dimostrò comprensione per quella “fuga”. «Mi scrisse una lettera in cui mi diceva che avrebbe preferito essere stato informato perché mi avrebbe potuto dare dei consigli ma al contempo si premurò di darmi indicazioni su chi avrei potuto contattare per avere un punto di appoggio». La madre, malata, continuava a crederlo a Parigi. «Era una guerra – racconta Elio Canevascini – dove si poteva morire per niente, a causa di un’imboscata, per la “soffiata” di un delatore. C’era mancanza di tutto, di medicinali e di armi. Non volevo che mia madre ne soffrisse. D’altra parte non fui il solo in Ticino che partì di nascosto volontario per la Spagna». La decisione di Elio maturò a Parigi, nell’ambiente antifascista dei profughi. «Frequentavo la casa di Cipriano Facchinetti, punto d’incontro d’intellettuali e politici italiani e spagnoli. Lì ero solito ritrovarmi con Carlo Rosselli, Giuseppe Saragat, Pietro Nenni ma anche con altri. La mia attività di militante era nota alla polizia italiana fascista, tant’è che mi aveva schedato e mi pedinava. Ci sono documenti in cui si segnalano tutti i miei movimenti e attività, vicende parte delle quali sono frutto di pura invenzione». La prudenza non era mai troppa. «Casa Facchinetti, frequentata da molte persone, era purtroppo anche un nido di vespe, di delatori e traditori ben mimetizzati e bisognava costantemente guardarsi le spalle, muoversi con grande cautela. Per questo era importante che il contatto fosse sicuro». Quel contatto si chiamava Randolfo Pacciardi, un avvocato di fede repubblicana che in Spagna prese il comando del Battaglione Garibaldi. «Era una figura straordinaria, un uomo, coerente, coraggioso e di valore e al contempo uno che non tradiva mai le proprie emozioni, freddo direi…Soprattutto molto prudente, tant’è che credo sia stato il solo tra gli antifascisti molto attivi a non essere mai stato preso con le “mani nel sacco”. Con l’avvocato Pacciardi ero in contatto già in Ticino: era il capo del servizio d’informazione antifascista. A Lugano si trovava la centrale, che lui stesso dirigeva: qui passavano tutti i messaggi e le informazioni provenienti dall’Italia e che poi venivano recapitati a Parigi, dove ci trovavamo noi. Il passaggio di queste informazioni avveniva sempre attraverso vie “speciali”: mio padre stesso si incaricava almeno una volta al mese di farle pervenire personalmente in Francia. Quasi nessuno si accorgeva dei suoi spostamenti perché partiva da Bellinzona verso le 11, consegnava il materiale che veniva dall’Italia, e ritornava puntuale per la seduta del Consiglio di Stato». In questo ambiente di fermenti politici e culturali giunse la notizia dell’attacco fascista alla democrazia spagnola. «Quando scoppiò la guerra di Spagna i primi decisi ad intervenire furono gli anarchici che comunque si recarono in un posto a loro favorevole, la Catalogna, allora presidio anarchico». Canevascini fu tra i primi ticinesi ad accorrere. Ed eccolo al passaggio della frontiera di Perpignan con Pacciardi e Piana, uno studente di medicina italiano e con in mano un lasciapassare anarchico e del movimento rivoluzionario “Giustizia e Libertà”, . «Al confine entrammo dalla parte francese di una casa e sbucammo da quella spagnola. Era una situazione che aveva dell’incredibile: si trattava di un’abitazione appartenente ad un anarchico e aveva la particolarità di trovarsi proprio sulla linea di frontiera per cui era divisa in due: metà si trovava sulla parte francese e l’altra metà sulla parte spagnola». Arrivarono di giorno, la situazione era tranquilla, nessun controllo in quella zona di frontiera. Oltrepassato il confine, la guerra li aspettava. «Subito conobbi gli altri anarchici diventati in seguito i miei compagni di lotta al fronte. Ci ritrovammo in un piccolo centro vicino a Figueras dove c’era una tensione intensa, un’atmosfera tragica suscitata dai racconti degli anarchici sulla conquista del paesino. Ricordo uno di loro che disse di avere ucciso il prete che dal campanile della chiesa sparava sui raduni degli anarchici (episodio questo che Ken Loach riporta nel film sulla guerra di Spagna “Terra e libertà”, ndr). Era particolarmente scosso e concitato e non si dava pace. Fu questo il mio primo contatto con la guerra. Da lì poi prendemmo il treno per Barcellona dove incontrammo, tra gli altri, Pietro Nenni. Tra i repubblicani e socialisti non correva buon sangue: i primi propendevano per una politica di lotta incruenta (abbattere il regime fascista con azioni politiche) mentre i rappresentanti di “Giustizia e libertà” erano convinti bisognasse difendersi con le armi». A Huesca ritrovò anche Bassanesi. «Voleva ripetere lo stesso volo che fece su Milano, su Madrid o su Barcellona ma non si rendeva conto che quella stessa impresa lì non avrebbe sortito gli effetti desiderati. “O vieni a buttar bombe, gli dissero gli anarchici, ad aiutarci sul piano militare, o altrimenti lascia perdere”. E fu così che Bassanesi decise di ritornarsene in Italia. Io al momento rimasi con Pacciardi che proprio lì al fronte doveva incontrare il repubblicano italiano Carlo Rosselli per mettere le basi di una partecipazione italiana alle Brigate internazionali che si andavano creando proprio allora, a pochi giorni dall’inizio della guerra civile». Elio Canevascini entrò a far parte della Colonna Ascaso, di circa 800 combattenti, diretta a Barcellona e alla quale si aggregarono, oltre agli anarchici, repubblicani, socialisti e comunisti. «Pochi giorni prima i repubblicani e gli anarchici avevano assaltato la caserma di Tibidabo per prendere le armi e in quell’occasione, vicino alla Rambla de Cataloña, venne ferito a morte uno degli eroi della guerra, Francisco Ascaso, a cui dedicammo la nostra colonna». La folta colonna Ascaso aveva avuto la meglio nei primi scontri contro i ribelli fascisti, ma a caro prezzo. All’alba del 28 agosto 1936 sul Monte Pelato (sull’altopiano di Galocha, tra Huesca e Almudévar) vi fu un combattimento violento dove molti combattenti antifascisti persero la vita. «Con alcuni anarchici dovevamo raggiungere in treno il fronte situato sul Monte Pelato, passando a pochi metri dalle postazioni franchiste dove già si trovavano legionari del Marocco e soldati fascisti del Tercio. Il tragitto fu drammatico: ricordo che il treno Huesca-Barcelona improvvisamente si fermò a poca distanza dalle nostre linee e da quelle franchiste. Era ormai sera e un anarchico della Colonna ci disse che avremmo dovuto passare la notte dentro il vagone. Quando calò il buio cominciò un bombardamento intenso, proprio nella zona della stazione di Tardienta dove avremmo dovuto alloggiare. La mattina trovammo case sventrate e morti». La paura divenne ancora più palpabile la sera successiva quando, sempre nel tragitto verso il comando di Monte Pelato, Elio e altri componenti della colonna vennero presi a fucilate rimanendo fortunatamente illesi. «Il comando si trovava in una sorta di maniero, chiamato Castillo de San Juan. Un certo Bianchi, italiano, mi consegnò la mia tessera di membro della Colonna Ascaso firmata da Carlo Rosselli. Da quel momento cominciò la mia attività di sanitario al fronte. Ero ancora uno studente e avevo dimestichezza solo con le cose basilari in campo medico (suturare ferite, fermare emorragie) ma di certo non potevo operare. Mi ritrovai ad aiutare un medico, un certo dottor Ricciulli». Si andava avanti così, con la vita sospesa a un filo. Si commuove l’Elio novantunenne di oggi nel pensare che essere vivi, a volte, è frutto della casualità. «Era novembre, e lì sul Monte Pelato tentavamo di attaccare il nucleo fascista a poca distanza. Io e altri tre compagni avevamo il compito di soccorrere i feriti: avevamo dei cavalli e un paio di barelle. Quando arrivò repentino il buio, io e Piana decidemmo di si rifugiarci in un avvallamento. La mattina, al sorgere del sole, ci avviammo e dopo qualche chilometro trovammo gli altri due compagni uccisi dal fuoco nemico. Fu uno choc. Mi resi conto che se non avessimo preso la saggia decisione di non proseguire avremmo rischiato anche noi la vita. Fu una cosa tragica». Elio Canevascini passò otto mesi in Spagna durante i quali scoprì che la salvezza della Repubblica non era minacciata soltanto dall’esterno, dai fascisti, ma anche dalle divisioni che avevano ormai frantumato quello che doveva essere il fronte antifascista. Comunisti, anarchici, repubblicani si fronteggiavano con le armi da fuoco e gli scontri intestini si facevano sempre più frequenti. Dopo il fervore della partenza e dell’arrivo nella patria dove tutti gli antifascisti si sarebbero dovuti trovare fianco a fianco in difesa della democrazia, la disillusione e l’amarezza cominciavano a fare il loro ingresso fra le fila dei volontari. «Quando partii ero convinto di andare a combattere contro i nemici e tutti coloro che avevano distrutto la Repubblica spagnola, primo fra tutti il giovane generale fascista Franco. Ma una volta in Spagna mi resi conto che nel fronte antifascista spesso venivano considerati alla stregua di nemici anche coloro che combattevano per la democrazia. Cominciai a prendere coscienza di una realtà dolorosa quando assistetti ad alcune delle discussioni furibonde sorte fra brigate e anarchici su come intervenire per dar manforte a Madrid che stava per cadere sotto l’urto fascista». Canevascini, pur con un lasciapassare delle Brigate internazionali, stava dalla parte degli anarchici. «Noi come gruppo non avevamo alcun addestramento militare e le armi erano poche e poco efficaci. Ci rendevamo conto che, senza l’aiuto di forze internazionali, non avremmo potuto fare molto per aiutare i madrileni a reggere. I comunisti, dal canto loro, compatti, decisero di partire tutti per il fronte. I restanti volontari si frazionarono in diversi gruppi: fu una cosa triste». Per un attimo Elio rivive la rabbia di allora. «Trovavo insopportabili quelle discussioni, quei litigi fra anarchici e comunisti, soprattutto quando si verificavano in presenza degli italiani. Uomini che rischiavano la vita in patria combattendo contro il fascismo e che erano arrivati in Spagna con un entusiasmo straordinario, oramai stroncato dall’assistere a quelle desolanti ed autolesioniste lotte intestine». E intanto circolavano le notizie di vittime antifasciste cadute sotto il fuoco “amico”. Divisioni e scontri “fratricidi” furono il suicidio della Repubblica. «La situazione era molto fluida, caotica per certi versi. Quello che è mancato al volontariato era una figura carismatica. Noi non avevamo un Buenaventura Durruti. Costui, in particolare, era considerato un eroe anche prima della sua morte e tutta Barcellona parlava di questo personaggio diventato in breve mitico. E pesa il punto interrogativo su chi lo abbia ammazzato, se i fascisti oppure i comunisti. Così come pesa la morte dell’anarchico Camillo Berneri, ucciso dagli stalinisti il 27 aprile del 1937». E qui si apre un altro capitolo doloroso per Canevascini. «L’ho conosciuto al fronte. Era un uomo straordinario, una figura portante della lotta antifascista italiana e spagnola, dotato di una cultura universale. Diventammo amici ma persi le sue tracce quando partì per Barcellona. Mi aveva affascinato con quel suo alone di misticismo che si rifletteva anche nel portamento. Indossava un cinturone allentato alla vita da cui pendeva una pistola ballonzolante ad ogni passo: aveva l’aspetto più antimilitarista che si possa immaginare. Si era recato alla Radio della Cataloña proprio per commemorare la figura di Gramsci e all’uscita venne freddato dai comunisti». Quel delitto segnò la divisione irreversibile tra comunisti e anarchici. «Quando lo venni a sapere provai un senso di sgomento e di amarezza che mi segnò profondamente. Tanto che decisi di andarmene via e di abbandonare la Spagna. E se anche fossi rimasto più a lungo laggiù avrei continuato a stare dalla parte degli anarchici: ero molto distante ideologicamente dai comunisti delle brigate internazionali, sebbene ammirassi i loro sforzi nella lotta antifascista». Non tornò subito in Svizzera. «Non potevo, avrei rischiato – come gli altri volontari svizzeri rimpatriati – di essere processato e messo in prigione perciò rimasi a Parigi ancora per un po’ di tempo. Ma fu qui in Svizzera che diventai chirurgo mantenendo vivi i miei ideali socialisti. Anni dopo, infatti, partii per la Jugoslavia con la Centrale sanitaria svizzera: ma questo è un altro capitolo…». E ancora oggi nei suoi ricordi, mischiati alle volute di fumo della sua pipa, sembrano riecheggiare le parole che Carlo Rosselli pronunciò ai microfoni di Radio Barcellona quella mattina del 16 novembre del 1936: «Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano». 1) Lettera citata in: “Storia di un leader – vita di Guglielmo Canevascini 1886-1965” di Nelly Valsangiacomo Comolli, Fondazione Pellegrini-Canevascini, Fondazione Miranda e Guglielmo Canevascini editori, pag. 302 e sgg.

Pubblicato il 

20.02.04

Edizione cartacea

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