Lavorare di più allo stesso salario. Altrimenti ridurre le paghe. Sono le misure che vanno per la maggiore tra le aziende ticinesi in reazione alla svalutazione dell'euro rispetto al franco (– 14 per cento negli ultimi 18 mesi).

Il problema in alcuni casi esiste, difficile negarlo. Non si tratta di un problema di ordinazioni, ma di margine di profitto. Che, va detto, non è sempre interamente intascato dal proprietario. Un impresario lungimirante lo reinveste nella ricerca o macchinari per garantire un futuro a lungo termine all'azienda. Non si tratta dunque di un calo della domanda; i libretti delle ordinazioni delle aziende ticinesi esportatrici sono pieni per i prossimi mesi. Il problema sorge quando si cambiano gli incassi da euro o dollari in franchi svizzeri per far fronte alle spese di gestione (salari, imposte, affitti, energia, ecc.). Se prima vendevo una bici a 100 euro equivalenti a 130 franchi, oggi per lo stesso prodotto ne ricevo solo 110 di franchi. Un quinto di riduzione del margine di guadagno pesa.
Ma come ogni moneta che si rispetti, anche il franco svizzero ha due facce. Se per produrre la bici, il materiale importato mi costava 50 euro, cioè 65 franchi, oggi lo pago 55 franchi. Se la bici la vendessi solo in Svizzera, il profitto cresce alla grande. Dal franco forte quindi c'è chi ci perde e chi ci guadagna. Purtropppo dall'ufficio di statistica spiegano l'impossibilità nel calcolare se vi siano più perdenti che vincenti. La privacy delle aziende impedisce di avere una visione oggettiva e complessiva della situazione economica. Vi sono ditte che obiettivamente vivono delle difficoltà congiunturali dovute al cambio di valuta, e altre che approfittano per introdurre misure per aumentare i loro profitti. E infine, ci sono aziende che grazie all'euro debole stanno guadagnando molto ma si guardano bene dal dirlo.
Dall'ultimo bollettino sul commercio estero relativo a luglio diramato dall'ufficio di statistica federale si evince che le esportazioni sono comunque cresciute nel primo semestre dell'anno in corso, trainate soprattutto da orologeria, industria metallurgica e delle macchine e elettronica. Interessante osservare sul fronte che i prezzi dei prodotti importati (-3,9 per cento) si sono ridotti solo della metà rispetto a quelli destinati all'esportazione (- 8,2 per cento). Come a dire che i prezzi calano in uscita ma non in entrata. Sciogliere questo nodo aiuterebbe a comprendere come risolvere almeno una parte del problema.
Nel frattempo però in altri posti di lavoro, stando a quanto rilasciato a Ticinonline da Stefano Modenini, direttore dell'Associazione delle industrie ticinesi: «il tasso di cambio fisso nell'ambito dei rapporti salariali è già un dato di fatto in alcune aziende». Interpellato da area, Modenini specifica: «Non ho dati certi, ma direi che riguardano una decina di aziende. La gran parte di quest'ultime punta sull'aumento dell'orario di lavoro. Ma vi sono aziende che lavorando già oggi su tre turni in ventiquattro ore, per cui diventa tecnicamente impossibile aumentare l'orario. In questi casi ci si orienta sulla retribuzione in euro o il taglio della tredicesima». Ma la vostra associazione come valuta queste misure? «Le misure devono essere mirate sulle realtà aziendali effettivamente toccate dal problema e concepite a breve termine. Lo scopo deve essere cercare delle soluzioni intelligenti, mantenendo una certa prudenza. Sappiamo che le aziende sono intervenute soprattutto nei settori amministrativi, mentre la parte produttiva è stata generalmente esclusa. Occorre prudenza nel generalizzare. Il salario non può scendere sotto certi minimi. Il rischio di creare tensioni esiste. L'ideale sarebbe risolvere il problema del super franco, ma i margini di manovra locali sono molto esigui». Cosa pensa della proposta lanciata dall'Ocst di utilizzare lo strumento del lavoro ridotto? «Recentemente questo strumento è stato utilizzato perché c'era un problema di domanda. Ora la situazione è diversa. Potrebbe comunque rappresentare una via d'uscita, seppur si tratti di una misura costosa per le casse della disoccupazione».


La Lega dei frontalieri

Il cambio fisso dello stipendio a una parte dei dipendenti in funzione di dove abitano è una misura che andrebbe incoraggiata secondo alcuni parlamentari ticinesi, vicini alla destra economica.
Dei deputati leghisti (primo firmatario Silvano Bergonzoli, Lega dei ticinesi), Udc, Plr e Ppd hanno chiesto al governo cantonale d'introdurre delle modifiche legislative alfine di consentire alle aziende locali l'applicazione di un tasso fisso di cambio discriminatorio per i dipendenti residenti oltre confine.
Molti esperti storcono però il naso di fronte a questa idea. Se la misura auspicata dai deputati leghisti e cofirmatari fosse realizzata, l'assunzione dei frontalieri diventerebbe conveniente non solo nei settori in balia del libero mercato del lavoro, ma anche nelle professioni dove gli stipendi minimi sono fissati dai contratti collettivi (un terzo dei salariati in Ticino).
Facciamo l'esempio di uno stipendio minimo obbligatorio di 4mila franchi. Se l'azienda pagasse lo stipendio in euro al dipendente al tasso di cambio fisso di 1 franco e 25 centesimi, quest'ultimo riceverebbe 3'200 euro. Per garantirgli questo importo in euro, al cambio attuale, l'azienda dovrebbe cambiare 3650 franchi. Un "risparmio" di 350 franchi rispetto al dipendente residente in Ticino a cui si versa un salario da 4mila franchi. S'intuisce facilmente a chi andrebbe la preferenza del datore di lavoro al momento dell'assunzione tra residente e frontaliere.
La misura auspicata dai deputati della destra economica favorirebbe dunque l'esatto contrario di quanto proclamato negli slogan elettorali dai leghisti nostrani.

Pubblicato il 

26.08.11

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