Il frontaliero che non c'è più

Fotografie da un mondo del lavoro transfrontaliero in continua mutazione. È questo il principale risultato raggiunto da una ricerca, una prima assoluta in questo ambito, presentata una decina di giorni fa a Como dalla Fondazione Ecap, in collaborazione con Lecco-Lavoro Spa, nell’ambito di un progetto Italia-Svizzera Interreg III. Ne emerge un’immagine che, andando oltre al bianco e nero, si arricchisce delle sfumature dell’universo dei pendolari del lavoro, preoccupati per i Bilaterali ma allo stesso tempo alla ricerca di una realizzazione professionale oltreconfine. L’ente per la formazione, la riqualificazione professionale e la ricerca (Ecap) ha intervistato un campione rappresentativo di 350 frontalieri riferito a tutti i comuni dell’area di confine e a tutti gli ambiti professionali. Lo scopo? «Dare voce a chi vive in Italia e lavora in Svizzera», ci ha detto Furio Bednarz, responsabile dell’ufficio studi Ecap. Voce a un lavoratore su cinque del canton Ticino, dicono le statistiche. Nel 2002 erano infatti 31 mila i frontalieri – con punte stagionali che hanno superato le 34 mila unità – su un totale di 163 mila lavoratori. Una risorsa di manodopera che è ormai diventata irrinunciabile per il mercato del lavoro ticinese ma che è stata finora poco studiata. Ecap cerca di rimediare con questa ricerca volta ad individuare le problematiche della mobilità insubrica che si trova, tra l’altro, in una fase di cambiamenti cruciali delle normative. «Con l’avvenuta entrata in vigore del 1o giugno della seconda fase dell’accordo sulla libera circolazione delle persone si rende ancor più necessario capire un fenomeno importante come il pendolarismo transfrontaliero», ci ha detto Furio Bednarz. Un fenomeno, quello dell’apertura del mercato del lavoro svizzero, che non preoccupa soltanto i ticinesi ma, come mostra la ricerca dell’Ecap, anche i lavoratori italiani residenti nella fascia di confine. Timori a dire il vero non del tutto ingiustificati poiché la maggior facilità di impiegare lavoratori da parte delle imprese – che non dovranno più passare dall’Ufficio manodopera estera per assunzioni sotto ai 90 giorni –, e i minori controlli sui salari – tutta ancora da verificare l’efficacia del nuovo organo di controllo, la Commissione tripartita cantonale – si tramuta inevitabilmente in un minore potere contrattuale del lavoratore, sia svizzero che italiano. Minore potere contrattuale significa minori possibilità di spuntare stipendi più alti o di mantenerli al livello attuale. L’Ecap fa infatti notare che grazie all’«effetto annuncio» ci sono già parecchie aziende ticinesi che si sono mosse in anticipo rispetto al 1o giugno con rinnovato interesse verso il vicino bacino della manodopera italiana. Inoltre non è da escludere un «effetto sostituzione» dei “vecchi lavoratori” in un contesto di maggiore libertà e forte richiesta di essere impiegati. Come dire: coloro che non si piegheranno alle nuove condizioni potranno essere facilmente sostituiti. Un grattacapo che preoccupa sia ticinesi che frontalieri. Timori e paure però non sempre solo oggettive: dei 350 intervistati ben il 70 per cento ha dichiarato di conoscere «poco o per nulla» i Bilaterali e i loro effetti. C’è in particolare confusione sull’avvenuta apertura del mercato di martedì che non prevede, come molti credono, la possibilità di accesso anche per i lavoratori dei 10 paesi dell’Est recentemente entrati a far parte dell’Unione europea. Un appuntamento quest’ultimo però solo rimandato: ai nuovi membri Ue sarà consentito lavorare su territorio elvetico a partire dall’estate dell’anno prossimo. Intanto la presenza del tradizionale frontalierato delle zone a ridosso del confine nel settore secondario e terziario (vedi grafici nella pagina) resta, nel bene o nel male, uno dei più importanti fattori dello sviluppo economico del canton Ticino che può così ricorrere a manodopera altamente flessibile a salari contenuti. L’istogramma nella parte inferiore della pagina mostra invece un flusso di frontalieri altalenante in stretta connessione all’andamento della congiuntura ticinese. Variazioni che non hanno però, fa notare l’Ecap, mai fatto cessare la mobilità fra Italia e Svizzera. La ripresa a fine anni ’90 ha infatti riportato in Ticino i pendolari ma anche un nuovo fenomeno: quello del loro inserimento in segmenti in cui non erano tradizionalmente presenti come il settore amministrativo, socio-sanitario o quello della vendita. Un’evoluzione del mercato che Gianni Moretti, ex segretario generale della Camera del lavoro di Como, vede di buon occhio: «Dal mese di giugno i frontalieri non saranno più la ruota di scorta del mondo occupazionale ticinese, in quanto avranno pari dignità dei lavoratori indigeni». «Una volta il lavoro richiesto al frontaliero era di medio-bassa qualificazione. Inoltre il lavoratore che decideva di varcare il confine lo faceva per ragioni strettamente economiche. La nostra ricerca ci ha permesso di capire che non è più così, la richiesta viene ora anche da settori in cui ci vuole una buona professionalità e, sebbene il salario resti un fattore d’attrazione determinante, compare anche un desiderio di soddisfazione professionale da parte del frontaliero. Mi è sembrato di capire che per alcuni l’avvento dei bilaterali coincide anche con una sorta di legittimazione della propria condizione». In questo modo Furio Bednarz ci ha riassunto il risultato di uno studio sulla realtà transfrontaliera condotto dalla Fondazione Ecap in collaborazione con Lecco-Lavoro Spa. Elaborando i 350 questionari distribuiti a un campione rappresentativo di pendolari italiani l’Ente per la formazione, la riqualificazione professionale e la ricerca (Ecap) fa notare che lavorare in Ticino è una scelta e non una costrizione per il frontalierato. Il salario continua a contare comunque sempre molto, il 27 per cento degli intervistati – significativo il basso livello di formazione e età più elevate – lo ha indicato quale motivazione principale. Fra gli altri fattori emerge a sorpresa l’opzione prevalentemente realizzativa, cioè la ricerca di soddisfazione nella propria professione. In questo caso si nota la relazione con la giovane età e una formazione più solida. Un mito, quello del frontaliere che viene in Svizzera solo per denaro, che una parte dei dati sembra voler sfatare anche se il legame con il tipo di formazione e l’età sembra piuttosto suggerire un fenomeno a due velocità. Da una parte il “nuovo frontaliero” che ha maggiore formazione e competenze e che trova impiego in settori in cui una volta non erano presenti i pendolari del lavoro quali l’amministrazione, il campo sociosanitario e quello dell’intermediazione finanziaria. D’altro canto resta il “frontaliero tradizionale”, quella fonte di manodopera flessibile ai bisogni della congiuntura economica (vedi grafico a lato) e col vantaggio di costare meno dei ticinesi. Un altro mito che cade, ci dice Tatiana Lurati, ricercatrice dell’Ecap, è quello che vuole il frontaliero come collaboratore fedele dell’azienda che per prima lo ha assunto. Volente o nolente il lavoratore è diventato sempre più flessibile, infatti 4 intervistati su 10 lavorano da meno di 5 anni presso l’attuale impresa. Ciò nonostante la maggior parte dei pendolari si dichiarano soddisfatti del rapporto con il datore di lavoro, in primis della qualità del lavoro ma anche, e non meno importante, del salario. Tutti contenti? Non proprio, molti frontalieri rilevano la scarsa possibilità di carriera che offre loro il Ticino e la bassa integrazione sociale. Inoltre alla domanda «ritiene che i frontalieri sono considerati nel mondo ticinese?» la maggior parte ha risposto «poco» annotando che spesso li si colpevolizza dicendo che rubano il lavoro al residente. Un ulteriore dato interessante è che il mercato del lavoro transfrontaliero, con punte stagionali che superano le 34 mila unità, funziona ancora prevalentemente con il passaparola. Più di 200 intervistati, su 350, hanno affermato di aver trovato lavoro grazie ad amici, parenti o altri frontalieri e solo 70 rispondendo ad annunci.

Pubblicato il

04.06.2004 01:00
Can Tutumlu