Un migrante con la valigia in procinto di salire su un treno, uno stagionale in una buia baracca, muratori alle prese con la costruzione della nuova stazione centrale di Zurigo, militanti di sinistra in corteo nelle strade di Berna. L’immaginario legato alla storia della migrazione novecentesca in Svizzera è fortemente dominato da figure maschili, eppure la ricerca storica degli ultimi anni ci dice che le donne emigrate in Svizzera, durante tutto il Novecento, sono state una parte importante e tutt’altro che passiva del movimento migratorio proveniente soprattutto dal sud dell’Europa. A livello numerico le donne sono state una componente non così minoritaria. Anzi, nel decennio compreso tra il 1945 e il 1955 esse sono state addirittura in maggioranza rispetto agli uomini. Queste donne non erano soltanto mogli al seguito dei propri mariti, ma spesso persone intraprendenti che espatriavano da sole in cerca di lavoro.

 

Territori maschili

Nella seconda parte del Novecento, le organizzazioni migranti hanno giocato un ruolo fondamentale nella difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici migranti. Queste però erano territori fondamentalmente maschili. Persino nelle progressiste Colonie libere italiane (Cli), una vera e propria associazione di massa, non esisteva una rappresentanza femminile degna di questo nome. Alla metà degli anni Sessanta, le donne all’interno delle Cli cominciarono però a farsi sentire. Nel 1965, a partire da Ginevra e Zurigo, si crearono infatti i primi gruppi regionali femminili. Tra le più attive in seno alla colonia di Ginevra, troviamo in questo periodo Maria Delfina Bonada, che si trasferirà poi in Italia per diventare una firma molto apprezzata de Il manifesto: «Sono nata a Ginevra e, dopo gli studi in Italia e la mia adesione al Partito comunista, sono tornata in Svizzera e mi sono avvicinata alle Cli. All’inizio mi chiedevano di preparare l’albero di Natale o cose simili, poi però qualcosa è cambiato. Il caso di Anna Maria Chiovini, oggi Loiacono, che volevano espellere insieme al figlioletto di due mesi, spinse molte donne ginevrine a impegnarsi in prima linea. A mia memoria era la prima volta che il tema dei bambini migranti veniva affrontato pubblicamente». Rosanna Ambrosi, insegnante, scrittrice, nonché figura storica delle Cli, ricorda quel periodo a Zurigo: «Le colonie erano dominate dagli uomini. Mi ricordo che mi sono ritrovata una volta in un’assemblea e un militante mi disse che non mi avrebbe mai sposato perché ero troppo polemica. Io allora ero moglie di Leonardo Zanier, dirigente di spicco delle Cli. Anche nell’ambiente associativo migrante la parità tra uomo e donna non era affatto la regola. Poi le cose in parte cambiarono e nel 1967 noi donne delle Colonie organizzammo il nostro primo Convegno».

 

La prima volta nel 1967

Il Convegno di Olten dell’ottobre del 1967 segnò una svolta storica: per la prima volta un gruppo organizzato di donne migranti in Svizzera prendeva la parola pubblicamente. I lavori preparatori furono molto intensi: le militanti delle Cli, con una professionalità degna delle sigle sindacali più strutturate, organizzarono un grande sondaggio tra le lavoratrici italiane per avere un quadro il più chiaro possibile relativo ai problemi delle donne. Molte delle militanti in prima linea nelle Cli avevano una buona formazione e spesso professioni più qualificate della media delle altre migranti, ma il loro obiettivo principale era quello di rappresentare le donne del proletariato migrante, fossero esse lavoratrici o madri. Il sondaggio era quindi uno strumento utile per tastare il polso della classe lavoratrice femminile. Non mancavano però le eccezioni. Franca Sabatti, lavoratrice dell’industria orologiera romanda, intervenne durante il Convegno per sostenere con forza alcune rivendicazioni valide ancora oggi: per lei era necessaria una forte riduzione dell’orario di lavoro nelle fabbriche, la parità salariale, una migliore suddivisione dei lavori domestici tra uomo e donna e assicurazioni per la maternità degne di questo nome. La stessa Sabatti auspicava inoltre l’entrata in massa delle lavoratrici italiane all’interno delle organizzazioni sindacali svizzere percepite come troppo “borghesi”. Nella mozione finale del Congresso le donne delle Cli si rivolgevano sia alle autorità italiane, sia a quelle svizzere. Nel primo caso, chiesero delle forti politiche occupazionali a favore delle donne, in particolare nel Mezzogiorno, per favorire il rientro di una parte delle persone emigrate. Nel secondo auspicarono invece una maggiore attenzione da parte delle autorità e dei sindacati rispetto ai problemi vissuti dalle lavoratrici: i ritmi di lavoro crescenti, il cottimo, la mancata rappresentanza, la salute. Per le donne delle Cli era fondamentale inoltre migliorare il diritto al ricongiungimento familiare, un dramma allora vissuto da migliaia di donne, l’assistenza alla maternità e affrontare il problema della scuola, dell’insegnamento della lingua italiana, della formazione professionale. Le autorità italiane risposero invitando una delegazione femminile delle Cli alla Conferenza governativa sull’occupazione femminile del 1968. La Conferenza non portò però a risultati concreti e soprattutto fu caratterizzata dall’assenza del tema dell’emigrazione. Anche in ambito svizzero non ci furono cambi di passo decisivi rispetto alle richieste delle Cli.  

 

Non solo italiane   

Le donne delle Cli ottennero visibilità all’interno e all’esterno dell’associazione anche se non riuscirono a cambiare radicalmente dinamiche e processi. Rosanna Ambrosi entrò a far parte del gruppo dirigente ma ricorda: «fui più che altro tollerata, sopportata, solo perché ero aggressiva e sapevo difendermi». Il Congresso di Olten e le iniziative successive non segnarono inoltre un coinvolgimento di massa della base femminile nelle strutture dell’associazione: «Molte delle donne migranti non avevano tempo per l’attività politica perché dovevano affrontare le fatiche del lavoro, della casa e della genitorialità». La stessa Ambrosi faticò non poco per conciliare lavoro, attività politica e maternità: «Leonardo Zanier, mio marito e padre dei miei due figli, era totalmente assorbito dalla sua militanza e risultava praticamente assente in casa. Non si è mai occupato davvero dei nostri figli». Allo stesso tempo, le donne delle Cli riuscirono a costruire ponti con migranti provenienti da altri paesi. In particolare, intrapresero alcune iniziative a partire dal 1971 con il Grupo de mujeres Atees, l’associazione delle emigrate e degli emigrati spagnoli in Svizzera. A differenza dell’immigrazione italiana, quella spagnola godeva di una protezione minore da parte delle autorità diplomatiche e consolari presenti su territorio elvetico. Una parte consistente dell’emigrazione spagnola, occorre ricordarlo, non era certo allineata con il regime dittatoriale di Franco. Inoltre, le condizioni di lavoro delle persone di origine spagnola erano addirittura peggiori rispetto a quelle di origine italiana. Sul piano ideologico le posizioni delle donne spagnole dell’Atees in termini di parità di genere erano simili a quelle delle italiane, che, così scrive la studiosa Sonia Castro Mallamaci, «inserivano la questione di genere nell’ambito di un quadro complessivo che vedeva la questione femminile collocata in una battaglia rivendicativa più ampia, che associava la critica al patriarcato con quella al capitalismo».

 

L’anno internazionale della donna

Nel 1975, anno internazionale della donna, le attiviste delle Cli e dell’Atees furono promotrici, insieme a donne appartenenti ad altre minoranze nazionali e a un gruppetto di uomini solidali, di un’iniziativa straordinaria. Dopo aver partecipato al deludente Congresso delle Associazioni femminili svizzere ed essere state invitate al contro-congresso del Nuovo movimento femminista svizzero, le donne migranti decisero di organizzare un congresso tutto loro a Zurigo. Nel febbraio del 1975, 180 donne di origine migrante, supportate da un gruppo di uomini e di donne svizzere, si riunirono per discutere dei propri problemi. Si suddivisero in gruppi di lavoro, uno dei quali gestito da Rosanna Ambrosi, e insieme scrissero un documento all’avanguardia sulla condizione della donna migrante: il Manifesto delle donne emigrate (Manifest ausländischer Frauen). Il testo fu poi inviato ad associazioni di donne svizzere provocando non poche critiche per la natura radicale delle rivendicazioni e per il tono risoluto delle stesse. A rileggerlo oggi ci accorgiamo invece che questo manifesto fu in grado di anticipare i tempi ed è tutt’oggi una pietra miliare della storia del femminismo in Svizzera.

 

Un catalogo completo

Le donne migranti erano consapevoli di essere discriminate per il fatto di trovarsi spesso al gradino più basso della società, ovvero quello delle lavoratrici non qualificate, per la loro provenienza, che si traduceva in un alto tasso di insicurezza del soggiorno, e ovviamente in quanto donne. Per Rosita Fibbi, sociologa dell’università di Neuchâtel, tra le partecipanti alla stesura del manifesto, «questo documento è un vero e proprio catalogo completo di rivendicazioni. La tematica femminile è esplorata a 360°. Nel manifesto si fondono due dibattiti, quello relativo alla migrazione e quello femminista». Il manifesto affronta il tema del lavoro, della protezione della maternità, della parità tra uomo e donna, affronta il problema scottante del ricongiungimento familiare, e quindi dello Statuto dello stagionale, il problema abitativo, quello della difficoltà di essere madri e lavoratrici in ambito migratorio e, inoltre, si esprime sul doppio carico di lavoro della donna: i lavori domestici e di cura e il lavoro retribuito in contesti industriali o nel terziario. Si parla anche di strutture per l’infanzia, di sistema scolastico, di malattie di origine sociale come l’esaurimento nervoso, di isolamento sociale, di formazione professionale, di educazione sessuale e, non da ultimo, di diritti politici.


Il Manifesto «precorse in parte i tempi dal punto di vista dell’elaborazione teorica», afferma sempre Fibbi, «ma non propose alcuna azione politica concreta nell’immediato». I suoi effetti non furono dirompenti, anzi si registrarono addirittura delle reazioni negative anche tra le donne svizzere.

 

Reazioni incredibili

Dopo la prima stesura del Manifesto, come dicevamo, le donne migranti inviarono il Manifesto alla stampa e a numerose organizzazioni svizzere per una presa di posizione sui contenuti dello stesso. Tutte queste organizzazioni furono allo stesso tempo invitate a partecipare a un secondo incontro per promulgare il documento definitivo. Un incontro che si svolse sul finire dello stesso anno sempre a Zurigo.


Le reazioni, anche da parte delle associazioni femminili svizzere, furono in parte sconcertanti. Alcune organizzazioni si rifiutarono di prendere posizione, altre criticarono la volontà da parte delle donne migranti di avere voce in capitolo anche in ambito politico. Per la Frauenzentrale Winterthur, ad esempio, non era accettabile che un gruppo di donne rivendicasse diritti politici in un paese che le accoglieva per lavorare. Alcune organizzazioni mostrarono un certo grado di sfiducia rispetto alla capacità delle donne migranti di poter dire la propria in un contesto a loro così alieno.

 

La Frauenzentrale Baselland mise anche in dubbio la rappresentatività del manifesto in quanto prodotto di un’élite educata ed emancipata di donne che non rappresentava la maggioranza delle donne straniere. Ci furono anche organizzazioni svizzere, tra cui il Sindacato edilizia e legno (Sel), pronte a raccogliere la sfida delle donne migranti, ma tutte espressero delle riserve sul Manifesto. Come ha scritto Sarah Baumann, nel suo bellissimo saggio dedicato alle attività delle donne all’interno delle Cli intitolato … und es kamen auch Frauen, «il manifesto fu criticato da quasi tutte le organizzazioni per il tono troppo volitivo, per lo stile considerato allora troppo aggressivo». Alle donne, anche se arrabbiate, era richiesta sempre e comunque gentilezza. In tutte le organizzazioni era presente, in maniera più o meno accentuata, il timore che l’attivismo migrante potesse incrinare gli equilibri sonnolenti della Svizzera.

 

Oggi il Manifesto, come già ricordato, è capace di parlare ancora al movimento femminista. Questo documento ci ricorda che il femminismo non può essere efficace se non tiene conto anche di tipologie di discriminazione che vanno al di là del genere. Il Manifesto è capace di parlare anche a tutte quelle donne impegnate nel sindacato. Ci dice infatti che un’azione sindacale a favore di tutte le lavoratrici non può rimanere confinata all’interno del mondo del lavoro, ma deve incidere a livello politico in più ambiti: quello delle strutture dell’infanzia, quello scolastico, quello della salute, quello abitativo e, non da ultimo, quello dei diritti.

Pubblicato il 

22.06.22
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