In un rapporto dettagliato Amnesty International ha denunciato il 5 aprile scorso le migliaia di voli organizzati dai servizi segreti americani (la Central Intelligence Agency, Cia) fra il 2001 e il 2005. Questi voli, violando diversi spazi aerei, utilizzavano impunemente gli aeroporti europei, fra i quali Zurigo e Ginevra. L'obiettivo principale di questi voli verso la tortura era il trasferimento di persone sospettate di attività terroristiche. Questa denuncia di Amnesty International è giunta poco meno di tre mesi dopo che i giornalisti svizzeri Beat Jost e Sandro Brotz avevano rivelato sul Sonntagsblick, prove alla mano, l'esistenza di prigioni clandestine della Cia in Europa, in particolare in Polonia e in Romania. Queste rivelazioni sono state all'origine di un terremoto massmediatico che ancora oggi scuote l'opinione pubblica mondiale. Di seguito vi proponiamo un'intervista con i due giornalisti del settimanale svizzero-tedesco che, qualche settimana fa, hanno pubblicato un libro su questo scandalo (1), in cui è riportata pure un'analisi del deputato ticinese al Consiglio degli Stati Dick Marty.

L'affare del fax segreto svelato dal Sonntagsblick ha suscitato grandi reazioni. Come avete vissuto quel momento?
Jost: È stato un momento magnificamente coinvolgente, accattivante ed esaltante.
Brotz: Un'esperienza unica, intensa e folle.
Non avete subito un'enorme pressione in quanto giornalisti?
Jost: Certo che ci sono state pressioni da parte del Consiglio federale e dell'esercito. Ma vi abbiamo resistito, e questo tanto più volentieri quanto più il nostro caporedattore Christoph Grenacher ci copriva interamente le spalle. Queste reazioni intrise di nervosismo dimostravano bene che in primo luogo il fax egiziano era vero e, in secondo luogo, che era politicamente esplosivo.
Perché era così esplosivo? Alcuni vostri detrattori sostengono che il fax era insignificante.
Brotz: Al Consiglio federale piacerebbe molto che le cose stessero effettivamente così. Ma la realtà dei fatti è diversa. Attraverso il Ministero degli esteri egiziano uno Stato per la prima volta ha confermato ufficialmente l'esistenza delle prigioni della Cia. Non solo, questo documento segreto e reso pubblico dal Sonntagsblick dimostra che il governo svizzero ne era al corrente da diversi mesi.
Il Consiglio federale ne sa più di quanto non sia disposto ad ammettere?
Jost: Ne siamo persuasi. Con il sistema d'intercettazione satellitare Onyx i servizi segreti svizzeri dispongono di installazioni d'ascolto e di ricognizione costose e potenti. Se gli agenti del Dipartimento della difesa, della protezione della popolazione e dello sport non riescono a ricavarne di più bisogna tagliargli subito tutti i fondi. Sottoscrivo pienamente la tesi del deputato zurighese Udc al Consiglio degli Stati Hans Hofmann, presidente della Delegazione delle Commissioni della gestione, che ha il compito di controllare nel dettaglio le attività nell'ambito della sicurezza dello Stato e dei servizi d'informazione. Secondo Hofmann il fax egiziano è soltanto una tessera del mosaico. Il Consiglio federale dovrebbe ancora disporre di ben più informazioni su questo affare.
E perché il Consiglio federale non lo ammette?
Brotz: Perché lo imbarazza dover riconoscere che la Svizzera fa dello spionaggio nei confronti di altri Stati. E soprattutto Berna teme di rovinare i suoi rapporti con l'amministrazione Bush. Ecco perché il Consiglio federale ha tentato di sviare l'attenzione dal vero problema impiegando contro di noi tutta l'artiglieria delle sanzioni di cui dispongono la giustizia militare e il Ministero pubblico della Confederazione. Per il resto s'è comportato secondo il motto "non parlo, non vedo, non sento", che è indegno di una democrazia.
Ci sono state anche delle reazioni positive, delle testimonianze di solidarietà nei vostri confronti?
Brotz: Sì, in particolare all'estero. Dei giornalisti del mondo intero ci hanno telefonato per verificare se era proprio vero che rischiavamo cinque anni di prigione. Anche l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e Reporters sans frontières hanno scritto intercedendo a nostro favore presso il Consiglio federale. I miei conoscenti mi hanno già proposto un gran numero di lime per poter evadere dalla prigione…
I media svizzeri hanno ricostruito e approfondito l'affare molto timidamente. Come ve lo spiegate?
Brotz: È vero che molti media hanno semplicemente ripreso la versione ufficiale, ad eccezione del Tages Anzeiger o della Basler Zeitung. Anche la televisione svizzero-tedesca, che inizialmente aveva bucato la questione, poi s'è impadronita del soggetto. Al contrario, i settimanali Weltwoche e Facts hanno assunto un atteggiamento denigratorio. È una situazione che affrontiamo serenamente: come dice volentieri il mio collega Jost: «la gelosia è la forma suprema di riconoscimento».
Anche i partiti politici hanno reagito con molta prudenza.
Jost: Prudenza dite? L'Udc ci ha accusati senza mezzi termini di essere dei "traditori della patria" e "una vergogna per il paese". Dei parlamentari dell'Udc e del Plr si sono mossi per minimizzare la questione. Quanto al Ps, se n'è rimasto zitto per proteggere i suoi due consiglieri federali direttamente coinvolti nella faccenda. Soltanto Jo Lang, Franziska Teuscher e Daniel Vischer, tutti e tre dei Verdi, hanno esercitato un'effettiva pressione in parlamento e nelle commissioni.
Una mozione proprio del parlamentare Jo Lang chiede l'abrogazione dell'art. 293 del Codice penale che punisce la divulgazione di deliberazioni ufficiali segrete. Questo è sufficiente secondo voi?
Jost: L'articolo 293 deve sparire, su questo non ci sono dubbi. Già l'ex ministro della giustizia Arnold Koller l'aveva qualificato di vecchiume. Ma deve sparire pure la giustizia militare, una giustizia straordinaria che altro non è se non una reliquia della Seconda guerra mondiale. Non ha più nessuna ragione di essere, e soprattutto non in ambito civile, dove funziona come pura macchina di repressione contro la libertà di stampa.
Si sente dire a volte che pochi giornalisti in Svizzera s'impegnano per la protezione delle fonti in quanto nel nostro paese non si fa quasi più del giornalismo d'inchiesta. Che ne pensate?
Jost: È molto grave che la giustizia possa perseguire dei giornalisti e che probabilmente possa anche spiarli, senza che qualcuno protesti. La cosa non riguarda solo noi. Urs Paul Engeler della Weltwoche, Henry Habegger del Blick, Johann Aeschlimann di Facts o dei giornalisti di Le Temps sono pure stati presi di mira dalla giustizia.
Brotz: Tutti i giornalisti dovrebbero impegnarsi contro questi metodi da ficcanaso. Ciò che capita in Svizzera da diversi anni mette in pericolo lo statuto della professione in generale e non dev'essere accettato. In questo modo lo Stato cerca di ostacolare il giornalismo critico. Più di un giornalista in questo paese si accontenta di fare la spola da una conferenza stampa all'altra. Non è questa la concezione che ho di questo mestiere. E indipendentemente dalla concorrenza fra le diverse testate anche gli editori dovrebbero impegnarsi in maniera unitaria contro questa caccia ai giornalisti.
Avete appena pubblicato un libro su questo affare. Con quale obiettivo? Difendervi?
Brotz: non si tratta tanto di noi, quanto piuttosto del fatto che delle prigioni segrete della Cia sono state o sono ancora in esercizio nel ventunesimo secolo, su suolo europeo. Tutto il continente è coinvolto in questo scandalo, stando al procuratore speciale del Consiglio d'Europa Dick Marty. Si tratta di un enorme scandalo che perfino in Svizzera, lo Stato depositario delle Convenzioni di Ginevra, stava per essere scopato sotto il tappeto. Il nostro libro ricostruisce come s'è svolto lo scandalo dietro le quinte del Consiglio federale e dei servizi segreti. E spieghiamo anche come siamo entrati in possesso del documento segreto. Ma ovviamente non sveliamo il nome del nostro informatore.

1) Sandro Brotz e Beat Jost, "Cia-Gefängnisse in Europa. Die Fax-Affäre und ihre Folgen", Orell Füssli Verlag, Zürich 2006, pp. 176.

Pubblicato il 

02.06.06

Edizione cartacea

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