C’è un termine che torna frequentemente: produttività del lavoro. Assume spesso una connotazione negativa, quasi fosse una colpa dei lavoratori: debole crescita della produttività del lavoro. Tempo fa, l’allora segretario di Stato per l’economia, fondandosi sugli scarsi risultati in fatto di produttività profetizzava: «La Svizzera diventerà in venticinque anni il paese più povero dell’Europa occidentale». Quei toni allarmisti si sono riversati nel rapporto del Consiglio federale sulla politica di crescita 2012-1015.


I guadagni in produttività del lavoro significano produrre altrettanto o più beni e servizi con minor lavoro. È una medaglia a due facce. L’una potrebbe essere positiva: si permette la riduzione del tempo di lavoro, si produce maggior ricchezza (in beni, servizi, profitti) che può essere utilizzata per far fronte ai bisogni collettivi, alla protezione sociale, all’aumento dei salari, alla riduzione delle ineguaglianze con una equa ripartizione dei guadagni di produttività. L’altra è negativa, il contrario della prima: bisogna esigere di più dai lavoratori, imprimere ritmi più elevati al lavoro, rimanere in tal modo più competitivi (in altre parole: la riduzione dei costi addossarla ai salari), usare la maggior ricchezza prodotta non per ridistribuirla ma per accrescere la propria posizione finanziaria. Il rapporto governativo citato preferiva la seconda medaglia: le “regole” dei mercati concorrenziali devono prevalere e le riforme vanno concepite in maniera tale che migliorino la produttività del lavoro, soprattutto se si tiene presente che «la crescita della produttività del lavoro in Svizzera è sempre stata comparativamente bassa» .


Ai lavoratori si presenta ovviamente la seconda faccia, minacciando recessioni se non si pone rimedio. Almeno due obiezioni si possono contrapporre a questo modo di ragionare divenuto sistematico, a livello politico o delle organizzazioni economiche.


La prima. Si sono moltiplicati nelle scorse settimane i trofei assegnati alla Svizzera da varie organizzazioni internazionali pubbliche o private per l’uno dei più alti redditi pro capite del mondo (calcolando o non calcolando il potere d’acquisto), per il livello di globalizzazione (scambi mondiali), per l’alto grado di competitività (classificazione del World Economic Forum e del Fondo monetario internazionale). D’accordo, competitività e produttività sono nozioni un poco differenti. Ma come può un’economia ottenere risultati mediocri, insufficienti, da cataclisma prossimo venturo per la seconda (produttività del lavoro) e figurare nel “top” mondiale per tutto il resto? C’è sicuramente qualcosa che non è calcolato bene. Forse il maggior valore aggiunto creato da quel lavoro.


La seconda. Non ci si è ancora accorti che la nozione di produttività del lavoro, così come è ancora definita e calcolata, è superata? Innanzitutto perché abbiamo una economia caratterizzata per almeno il 70 per cento dai servizi (educazione, salute, giustizia, servizi alle persone, ricerca ecc.) dove i guadagni di produttività non sono realizzabili senza mandare a monte la qualità. In secondo luogo perché i guadagni di produttività come sono calcolati sono indifferenti alle esternalità ambientali, cioè ai costi generati per l’ambiente. Nell’uno e nell’altro caso si ignorano le esigenze principali del nostro tempo, privilegiando la quantità sulla qualità.

Pubblicato il 

09.10.14

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