C’è chi definisce la Ces un sindacato virtuale, chi lo declassa a poco più di un consulente – un’organizzazione dipendente in tutto e per tutto dall’Unione europea. Al contrario, c’è chi ne parla come l’embrione di una vera organizzazione sindacale trasnazionale, capace in prospettiva di diventare soggetto attivo nei processi di globalizzazione e interlocutore – se non proprio antagonista – delle multinazionali alle quali, a tutt’oggi, non sono posti vincoli sociali e sindacali dall’Europa a 25. Forse le prime due definizioni sono la semplice fotografia della realtà, mentre la terza rappresenta un’intenzione e presuppone, comunque, una radicale trasformazione della Confederazione europea dei sindacati (Ces). L’ingresso nell’Unione di dieci nuovi paesi – in gran parte provenienti dalla dissoluzione del blocco sovietico e dei suoi satelliti – ha reso urgente la definizione di un ruolo più incisivo della Ces. E l’esito del referendum del 25 settembre in Svizzera riveste una certa importanza in questo processo, in quanto evoca un fantasma con cui il sindacato europeo sta faticosamente facendo i conti: il rischio – meglio, il fantasma – del dumping sociale. Ne parliamo con Walter Cerfeda, segretario confederale della Ces e responsabile delle politiche contrattuali e delle relazioni industriali. Cerfeda ha una lunga esperienza di lavoro al vertice della Cgil. In Svizzera si vota per l’apertura delle frontiere, sia pure con alcuni vincoli e “garanzie”, ai lavoratori dei 10 nuovi paesi soci dell’Unione. I contrari a quest’apertura agitano lo spettro della guerra tra poveri, cioè dell’uso di lavoratori più deboli contro quelli più “forti”. Come risponde la Ces a queste paure, vere o strumentali che siano? Intanto rispondiamo con dati di fatto che rendono più concreto il confronto. Sono ormai 15 mesi che i dieci nuovi paesi aderiscono all’Ue, un tempo sufficiente per fare un primo bilancio. Si temeva un effetto devastante della mobilità sociale sulle economie e i mercati del lavoro dei paesi storici dell’Ue, invece i numeri ci dicono che l’unico fenomeno migratorio di una qualche consistenza riguarda lavoratori provenienti da paesi diversi: dall’Africa, dalla ex-Jugoslavia, dai paesi nella lista d’attesa europea come la Romania e la Bulgaria. C’è una ragione almeno che spiega la mancata invasione dei 10 nuovi soci dell’Ue: l’economia in questi paesi procede con una velocità assai maggiore di quella registrata tra i vecchi soci che non va oltre l’1,1 per cento. Nei nuovi 10 l’aumento del Pil viaggia tra il 3 e il 4 per cento, con punte del 6 per cento in Ungheria. Aggiungo a questo aspetto economico il fatto che il lavoro offerto dai paesi “forti” è un lavoro povero, per questo i lavoratori che arrivano alle nostre frontiere sono poveri in fuga dall’Africa e dai Balcani. D’accordo, le previsioni catastrofiche sull’allargamento dell’Ue erano sbagliate. Ma ciò non toglie che lo stato di salute dell’Europa economica e sociale è pessimo, e volge al peggio. L’Ue è in difficoltà. Il modello sociale europeo era fondato su un Pil caratterizzato da un’assoluta prevalenza dello scambio interno, tra paesi europei, fino all’87 per cento. Solo il 13 per cento dell’interscambio era con i paesi extraeuropei, ai tempi in cui c’erano solo tre entità economiche: Usa, Europa e Giappone. Con la globalizzazione e l’esplosione di nuove economie, con l’ingresso nel mercato di paesi come l’India o la Cina, l’Europa è rimasta ferma al palo, non regge la globalizzazione dove il suo modello non è più competitivo. I padroni lo sostengono da tempo e dicono che il primo passo da fare è l’abbattimento del modello sociale europeo... È vero che questo è l’obiettivo delle forze industriali e di molte forze politiche. La crisi di modello produce sbandamenti e paure a cui gli imprenditori si aggrappano (e che strumentalizzano) praticando dove riescono riduzioni dello stato sociale, dei diritti e dei salari producendo così dumping sociale. Sono le politiche liberiste e lo strapotere padronale a mettere i lavoratori gli uni contro gli altri. Contemporaneamente avanzano processi sempre più massicci di delocalizzazione in paesi in cui il lavoro e i diritti sono meno tutelati, con relativo abbattimento dei costi di produzione. Questo fenomeno – il lavoro che si sposta verso i paesi dell’Est – determina peraltro un freno alla corsa disperata dei lavoratori di quei paesi verso quelli più ricchi. Infine, c’è la minaccia di delocalizzazione, agitata dal padronato per convincere-costringere i lavoratori tedeschi o francesi o italiani ad accettare peggioramenti delle proprie condizioni se non vogliono vedere le loro linee di montaggio smontate e trasferite in Cechia o in Polonia. Ha in mente qualche esempio specifico? Mi ritrovo in mano la patata bollente della Volkswagen che, in un contesto in cui 10 mila lavoratori sono minacciati dalla disoccupazione, ha messo all’incanto una commessa per la produzione del modello Marrakesh: chi offre il prezzo più basso vince. In pole position c’è il Portogallo che offre uno sconto del 15 per cento sulla produzione. Questa è una politica insensata, inaccettabile che produce quel dumping rispetto al quale i lavoratori dei nuovi paesi Ue non c’entrano nulla. E allora che bisognerebbe fare, e quale strada secondo la Ces andrebbe seguita? Siamo chiamati a costruire le condizioni per rilanciare il modello sociale e competitivo europeo, e in questa battaglia la Svizzera è un soggetto importante. Purtroppo, insisto, la politica si sta muovendo su una strada che va in direzione opposta. L’attuale presidente europeo Tony Blair, solo per fare un esempio, ha convocato a Londra un vertice straordinario degli stati membri non per rilanciare, ma per revisionare in senso liberista il nostro modello sociale. E la spinta in Europa, dove le new entry sono più legate al modello americano che a quello europeo, spostano la politica in una direzione sempre più liberista. Il rischio è che, tra insicurezze e paure, crollino gli argini del nostro modello sociale, una specie di effetto New Orleans. Per lavoro mi tocca di occuparmi di aziende europee che vanno a fare lavoro nero addirittura in Islanda. In Svezia i sindacati hanno fatto uno sciopero generale – ed erano anni che non ne venivano proclamati – contro alcune imprese lituane che dopo aver aperto stabilimenti a Stoccolma pretendevano di trattare i dipendenti con le regole contrattuali lituane. Qual è l’attenzione della Ces sull’esito del referendum elvetico? I sindacati svizzeri sono a pieno titolo nei comitati esecutivi della Ces e svolgono un ruolo importante, come importante è che la consultazione sull’apertura delle frontiere ai nuovi membri dell’Unione abbia esito positivo. Il referendum è un test per tutta l’Europa. Ultimamente siamo rimasti sorpresi dalla denuncia avanzata dai nostri colleghi svizzeri sui problemi crescenti in relazione alle norme sul lavoro e ai diritti. La Svizzera non è più un’isola felice, come testimonia il crescente malessere sociale che in Europa, purtroppo, è una condizione unificante.

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16.09.05

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