Aliya ha dodici anni ed è una nativa digitale. Per andarsi a comprare un gelato, mia nipote preferisce le sia affidato un “bancomat”. Quand’era piccola, le avevamo regalato un salvadanaio, che a furia di centesimi a Natale era pieno e vai con il rituale di romperlo e contare le monetine. Nessuna delle banche di Berna, però, quest’anno ha accettato di cambiare in banconote il tesoretto e la nostra banca non mi ha consentito di versarle sul conto. La risposta di tutti gli istituti era sempre identica: “Dovete andare alla Banca nazionale”. Così un giorno attraversiamo la città vecchia ed entriamo nella solenne sede affacciata su Piazza federale. La signora allo sportello è gentile, ma irremovibile. Non glieli cambiano certo “così”, alla creatura. Devo firmare un modulo, consegnare il sacchetto e in un paio di settimane l’operazione sarà conclusa. Dovremo pagare un contributo per il servizio, precisa, e il controvalore sarà versato sul mio conto bancario. Tanto rumore per i risparmi di una bimba, che ha commentato: «Vedi nonna che è meglio usare una carta, invece del denaro fisico?». La progressiva messa in pensione di monete e banconote va avanti da anni, ma sta subendo di questi tempi una vertiginosa accelerazione. Il periodico Saldo ha di recente pubblicato un’interessante inchiesta sul tema. Che svela come un tassello sia stato aggiunto nell’ultimo periodo - grazie alle paure pandemiche. C’è che nel mezzo della confusione, forse lo ricorderete, cominciò a girare la voce che banconote e monete avrebbero potuto trasmettere il virus. I soliti, inascoltati esperti dissero che era una sciocchezza. Indovinate chi fu a sostanziare l’ipotesi? Le aziende che fanno affari con il circuito di carte di credito e debito, e i consorzi bancari. Risultato: se cinque anni fa a pagare con carte e applicazioni digitali era circa la metà della popolazione svizzera, oggi si tratta di oltre il 70 per cento. I conti li ha fatti lo “Swiss Payment Monitor”, osservatorio sui mezzi di pagamento dell’università di San Gallo e della scuola superiore di Zurigo per le scienze applicate. Interessante, spiega Saldo, che non ce ne rendiamo conto eppure finiamo per pagare cara la “comodità”. Soprattutto per i piccoli negozi, infatti, le commissioni legate all’utilizzo di carte e sistemi come Twint finiscono per incidere sui bilanci. E quindi, provocano l’aumento dei prezzi. Facile immaginare che i pagamenti digitali influiscano anche sui giganti del commercio al dettaglio, considerati i grandi numeri di vendite. La giornalista Mirjam Fonti ha chiesto lumi ai grandi distributori, ma sia Migros che Coop hanno preferito non dire quanti milioni di franchi ogni anno paghino alle aziende che gestiscono l’enorme flusso di denaro. Racconta Saldo, che il consigliere agli Stati ticinese del Centro Fabio Regazzi ha presentato un postulato che chiede più trasparenza, perché: “Consumatori e consumatrici pagano due volte per utilizzare mezzi di pagamento virtuali: con l’annuale balzello per avere la carta, e perché i prezzi finiscono per aumentare”. L’alternativa, per ora, esiste: pagare in contanti. Ma la caccia allo sportello si sta facendo ardua. Secondo dati della Banca nazionale, nel 2019 ce ne erano 7.279, nel 2024 sono scesi a 6.145. Resta il fatto che il contante non comporta costi aggiuntivi, e ci consente di non essere tracciati e profilati. L’iniziativa “Chi vuole pagare in contanti deve poterlo fare!” chiede di ancorare nella Costituzione il principio che in Svizzera sia consentito ovunque di pagare con banconote e monete. La raccolta delle firme si concluderà il 21 settembre 2024. |