Una decina di Iracheni hanno accostato due tavoli al caffè ristorante della Migros 2000 di Losanna. È da questa insolita prospettiva, divenuta il loro punto d’incontro, che discutono dell’avvenire del loro paese. In questi giorni le minacce degli Stati Uniti sono ovviamente al centro delle discussioni. Sono tutti d’accordo: è il petrolio che motiva le minacce di Washington. In quanto oppositori di area di sinistra, essi non approvano minimamente la politica di George W. Bush. Eppure l’impasse attuale li porta ad approvare, la morte nel cuore, la possibilità di un intervento. Si tratta di un’opinione largamente diffusa tra i 7 mila iracheni rifugiati o richiedenti l’asilo, anche se non è generale. Ahmad Ali, 54 anni, sciita, vive in Svizzera da dieci anni. Già soldato nell’esercito iracheno, ha disertato subito dopo la guerra del Golfo del 1991 ed è ammesso provvisoriamente a Losanna. Si preoccupa per la madre e la sorella rimaste a Baghdad. Dice: «Non accetto che gli Stati Uniti distruggano le istituzioni e le infrastrutture del mio paese, né che facciano del male ai civili. Ma dobbiamo sbarazzarci del dittatore e vivere nella democrazia. Se gli Americani ci garantiscono queste due cose, siamo pronti a lottare con loro». Ciò che spinge oggi alcune forze dell’opposizione irachena ad approvare con discrezione il «salvataggio» americano, è la loro disperazione. Per loro, se il regime di Saddam Hussein è ancora ben saldo sui suoi piedi dopo 20 anni di lotta, questo significa che non riusciranno mai a sbarazzarsene. C’è dunque un’altra soluzione all’infuori di Washington? «L’ala militare dell’opposizione irachena ha tentato otto volte con degli attentati di sbarazzarsi di Saddam, senza mai riuscirvi. Era ben protetto, addirittura dagli Usa, fino al 1990», ci spiega Bassem (nome fittizio), ex ufficiale iracheno. Per Nevzad Nourri, che ha lo statuto di rifugiato, sostenere gli Stati Uniti è una scelta obbligata: «Abbiamo bisogno dell’aiuto internazionale per creare un Irak democratico e federale, ma non si tratta semplicemente di eliminare Saddam Hussein. Se gli Americani vogliono soltanto cambiare un dittatore con un altro, noi ci opporremo», ci dice. «Questo aiuto non deve nemmeno diventare egemonico» aggiunge Ahmad Ali. E Karim, pittore di Baghdad oggi rifugiato a Losanna, si spiega: «In quanto comunista avrei preferito che Saddam fosse eliminato senza questa guerra, ma la sua rete di spionaggio è troppo potente». Lukman Hussein, giovane politologo all’università di Losanna è curdo dell’Irak. In Svizzera da dieci anni come rifugiato politico, Hussein si distingue dagli altri ostentando apertamente le sue tendenze pro-americane: «Questi movimenti di sinistra non comprendono la realtà irachena. Il popolo ha bisogno di condurre una vita normale e di democrazia. Chi è contro gli Americani prolunga quest’orribile dittatura». Bassem, ex ufficiale dell’esercito iracheno, ha partecipato alle guerre civili così come alla guerra Iran – Irak. Ha fatto parte dei primi contingenti che sono entrati in Kuwait. Dopo 25 anni passati nell’esercito, ha preferito lasciare il suo paese nel 1997 e si è rifugiato in Svizzera con la sua famiglia; da poco hanno ottenuto lo statuto di rifugiati a Soletta. «Ho disertato diverse volte, ma mi hanno sempre ritrovato perché ero uno specialista delle rampe di lancio per i missili a gittata di 100 km», dice Bassem. «Ero contro Saddam. Sono stato obbligato a partecipare alla guerra contro il Kuweit. Ma nel 1997 mi si è presentata un’occasione per fuggire dal paese». Perché era contro Saddam Hussein? «Sono Turkmeno e come tale in Irak non abbiamo nessun diritto. Sono per l’eliminazione pacifica di Saddam, o per il suo esilio. Ma ciò non sarà possibile senza un aiuto esterno!» Di che cosa ha più paura? «L’esercito iracheno potrebbe utilizzare le armi chimiche o biologiche contro il suo popolo, ecco che cosa mi inquieta. Ma non ho nemmeno fiducia nei confronti degli Stati Uniti: la settimana scorsa i loro raid aerei hanno ucciso cinque civili». *) Infosud

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06.12.02

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